domenica 29 luglio 2012

Séptimo


Arequipa



C’è una città molto grande ad Ovest di Puño che si chiama Arequipa.
Sono partito da Caracoto lunedì, nel pomeriggio. Il posto non era molto lontano (almeno se si fa riferimento alle distanze tipiche di un paese vasto come il Perù) e l’autobus era un buon trasporto. Si muoveva su una strada molto bella anche se tipicamente desertica, ma piena di scorci e qualche accenno ad una natura differente dai semplici sassi. Dovevo arrivare ad Arequipa dopo le sette, perché nei miei programmi era di dormire da un amico di Padre Manuel, un altro curato, ma meno missionario rispetto alle mie ultime illuminate conoscenze.
Padre René, mi aveva spiegato Manuel, è mezzo francese: ha vissuto molto in Francia anche se nato in Perù, ed ora vive ad Arequipa che è la seconda città del Perù e come tale molto caotica. Dovevo raggiungerlo nel suo appartamento in piano centro, dovevo mettermi d’accordo per telefono con la sua perpetua, la señora Magda, e avvisarla del mio arrivo, poi dovevo prendere un taxi.
La telefonata e il taxi sono stati momenti importanti del mio viaggio, un po’ come varcare una porta socchiusa con l’incoscienza di ciò che vi avrei trovato.
Non è difficile telefonare in Perù: ogni angolo di qualsiasi minuscolo pueblo di qualsiasi sperduta regione possiede una bottega che vende telefonate. Si chiamano locutorios e sono segnalati da un grosso cartellone verticale, colorato nello sfondo con delle lettere blu molto grandi in primo piano. Anche la stazione dei bus ne aveva parecchi, e sono entrato nel primo che aveva il prezzo esposto. “Señora Magda, soy l’amigo de Manuel. He illegado aqui, in Arequipa y ahora tomo el primero taxi para la casa”, le avevo detto un po’ meccanicamente, recitando male il discorso che mi ero appena preparato. Poi uscì per cercare il mezzo.



La diffidenza è una brutta compagna di viaggio e appena usciti fuori dalla stazione, rimasti soli l’uno accanto all’altra, mi raccontava cose orribili in un soliloquio di vecchie raccomandazioni che stavano registrate da qualche parte nella mia testa. Mi parlava dei tassisti che bloccavano la macchina, ti rapinavano e ti lasciavano al bordo della strada, ma non era certo un problema primario. Però mi faceva spavento, e mi faceva voltare a destra e a sinistra, di scatto e senza tranquillità, mi diceva che potevano prendermi da dietro con un coltello e per darsi tono mi raccontava di quell’altro volontario che due anni fa, “…e lui parlava bene lo spagnolo, non come te che sei peggio di un lama, era andato in giro solo a Juliaca, vicino al mercato e lo avevano capito che era uno straniero, lo avevano minacciato con un coltello e lasciato dei tagli sulle mani.”. Mi aveva anche detto una cosa strana e ne avevo riflettuto, cioè che io rappresentavo quello che gli altri non avevano, e in alcuni casi il motivo stesso per cui non potevano averlo.
Tutto questo mi metteva a disagio, così decisi di salutare la mia accompagnatrice e di non dividere con lei la spesa del viaggio. Fermai vari taxi, ma solo il terzo accettò di accompagnarmi, mentre gli altri due mi avevano guardato con la pietà per l’uomo carico di sventura e avevano scosso la testa, adducendo motivazioni risibili come il traffico e l’ora difficile. Il terzo mi aveva guardato fisso e aveva anche parlato del traffico, ma nei suo i occhi si vedeva di riflesso il mio aspetto da gallinaceo europeo, così mi disse, “Uhm…  Calle Pizzarro con Victor Lira… Hay mucha conjestion… Està bien ocho soles?”.
Così, ho imparato, si spenna un pollo.

***



Manuel mi aveva parlato poco di Padre René, in compenso mi aveva descritto un altro personaggio molto interessante: “Sai, qui a Juliaca abbiamo un altro tipo particolare. E’ anche lui francese, però vive in Perù da tanti anni, credo da venti o trenta. Sai, è la persona più radicale che conosca. Non è un prete, ma frequenta l’ambiente della chiesa da molto tempo e sta sempre con i poveri e gli ubriachi, parla con loro, mangia, beve e pure dorme con loro, sulle strade all’aperto. Sta lì accanto e fa attenzione che non si feriscano, che non bevano troppo. E’ davvero un brav’uomo, però è difficile avere dei rapporti normali perché nel suo estremismo spesso si comporta in maniera strana. Sostiene che bisogna vivere come i poveri e non avere abitudini differenti, perché è irrispettoso. Forse non è neanche una mancanza di rispetto per lui, quanto una forma di illogicità. E’ sempre piacevole conversarci, però è anche capitato, a volte, che venisse a trovarci in parrocchia con il suo gruppo di ubriachi, che si mettono a gridare, a cantare e a rompere e rubare le cose. Allora li abbiamo scacciati e lui non mi ha parlato per un anno. Aveva anche una moglie e una figlia che l’hanno lasciato per lo stesso motivo, stanche di questa forma di follia. Un giorno, poi, è scomparso per sei mesi, che noi pensavamo fosse morto di freddo in qualche angolo, dietro qualche albero. Quando è tornato, non si è fatto problemi di sorta ed è ripassato dalla parrocchia a mangiare e a rimproverarmi che non si poteva mangiare così tanto, che era una cosa immorale, che i poveri non hanno da mangiare.
In fondo gli vogliamo tutti bene, perché è un uomo buono. Una volta ci siamo spaventati a morte, anche più di quando è scomparso: lo abbiamo visto dalla strada, il corpo disteso al bordo della ferrovia, di fianco ad un altro corpo morto. Sembrava immobile e pensavamo che fosse davvero morto, forse rapinato e colpito. Ci siamo avvicinati e con sorpresa abbiamo visto che non solo era vivo e sveglio, ma stava anche parlando con l’altro uomo, che era invece ubriaco marcio. ‘Sai, Manuel’, mi disse, ‘E’ troppo importante avere rispetto per gli altri e bisogna avere cura di parlare di pari grado, guardandosi negli occhi.’ Capisci? E’ per questo che stava disteso, per poter avere l’occasione di parlare con l’altro, di spiegargli che bere molto fa male, ma sempre guardandolo con gli occhi alla stessa altezza.”



Padre René era francese, ma in un modo diverso. Aveva la pelle scura, ma quasi come fosse molto abbronzata, perché il sole di Arequipa non è così forte come a Puño e non macchia la pelle. Aveva però un aspetto un po’ particolare che lo faceva assomigliare ad un topo, per via di un naso all’insù e delle orecchie sproporzionate rispetto al corpo molto minuto. A questo aggiungeva dei capelli radi tenuti all’indietro con una specie di brillantina e degli occhialetti molto piccoli. Aveva anche dei movimenti nervosi e sebbene fosse molto gentile non riusciva ad essere accogliente, in un certo senso.
Parlava anche un po’ di italiano, ma non bene e da parte mia rispondevo sempre in spagnolo, un po’ per esercizio, un po’ per abitudine o educazione. Però è difficile pensare che fossero forme di reale comunicazione, anche perché Padre René ascoltava poco di quello che gli si diceva, molto preso da pensieri trasversali che uscivano irruenti e acuti per mezzo della sua voce, e cambiavano sempre argomento: erano nuove domande private del minimo interesse o delle storielle che facevano capo solo al filo dei suoi ragionamenti.


Il primo giorno, mentre stavamo pranzando, mi mostrava il suo cane vestito da supereroe, giallo e rosso. “E’ un gringo peruviano”, mi spiegava accarezzandolo e subito scacciandolo via a calci, “E’ un gringo negro”, continuava ridendo, ma io non capivo bene: “Ma perché è vestito?”, chiesi.
“Si brucia col sole”, mi disse scoprendo la parte di pelle coperta, ed effettivamente sembrava tenere un’abbronzatura da muratore, ma senza aver dovuto faticare molto.
“Sai, c’è una storiella che raccontano qui…”, aveva proseguito, “Si dice che all’inizio del tempo in Perù esistevano solo uomini bianchi. Un giorno però successe che uno di questi, ubriaco, si rivolse al diavolo cominciando a prenderlo a spintoni e riempiendolo di insulti. Il diavolo, che era insolitamente paziente, non poté resistere a lungo e all’improvviso si volse verso l’altro con le braccia alzate, le mosse di scatto con un gesto violento e puff! Il bianco era stato bruciato, ed era ora tutto nero. Questo per spiegare l’origine de los negros. Ma sai, questa è una storiella racista, che qui raccontano spesso. E’ molto vecchia”.

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Non è però l’unica storiella che si racconta in queste zone leggendarie, dove il mito e la storia si fondono in una lega inestricabile di racconti tramandati ed evidenze archeologiche.
Arequipa è il contenitore ideale di queste leggende, situata in una valle circondata da vulcani millenari. Sono quattro o cinque vulcani sopra i seimila metri e salutano ogni mattino ben prima del resto della città: hanno in cima la neve perenne e sono così grandi da apparire sempre vicini e lontani. Il più vicino è El Misti, ha la forma di un cono perfetto e sovrasta il piano della città, ma non ne affetta il clima che rimane mite e tiepido per tutto l’anno. Le case sono piccole e gli abitanti sono moltissimi, tre milioni, dieci milioni o meno di un milione a seconda di quello che ti vuole raccontare chi te ne parla. E’ una distesa sterminata di abitazioni, con il vulcano che fa da guardiano, con l’aspetto sornione e la punta bianca. Tutta Arequipa è bianca, la chiamano La ciudad blanca perché le case sono fatte di Sillar, una pietra vulcanica di colore chiarissimo. Il centro è il nucleo abbagliante di questa distesa luminosa e si offre a molti turisti che ne visitano la cattedrale o le chiese più piccole. Vicino c’è un antico monastero dell’epoca della Conquista spagnola, nel 1580, ed è dedicato a Santa Caterina (Santa Catalina). Per secoli è stato il luogo di raccoglimento (ma non propriamente di preghiera) delle non primogenite dalle famiglie più ricche di Spagna. Per secoli le novizie hanno fatto voto di non povertà e perpetuavano la stessa viziosissima vita che portavano avanti prima dei voti. Tenevano schiave e amanti, e si divertivano in feste e orge spensierate. Questo idillio ebbe termine per opera congiunta di Papa Pio IX e una terribile suora domenicana, che costrinse le altre sorelle a muoversi più decisamente verso la dottrina e liberò la quantità di schiavi al loro servizio.



Il monastero è una piccola città nella città, un gioiello molto ben conservato che ha subito laboriosi restauri a causa dei frequenti terremoti che hanno imperversato nella zona negli ultimi secoli: si tratta naturalmente di sismi legati all’attività vulcanica, ma tutto il Perù è vittima di eventi di questo genere e ha ormai imparato, suo malgrado, a conviverci. Ed è anche per questo che le case sono normalmente molto basse e sembrano costruite con poco impegno.
Altri vulcani si trovano un po’ più lontano e si abbracciano in una valle molto famosa, chiamata Valle del Colca. Si tratta di un a lunghissima gola stretta tra le morse dei vulcani Coropuna e Ampato, entrambi sopra i seimila metri. Il punto più basso registra un dislivello di più di tremila metri e rende questa valle il canyon più profondo del mondo. La valle intera ospita numerosi paesini di origine Incas, poi deviati in seguito alla conquista spagnola. Dove ora ci sono le chiese, si racconta ci fossero templi dorati e culture ancora fiorenti. Ogni nome nasconde questa origine e fa riferimento ad antiche parole ormai perdute che richiamano a qualche particolare caratteristica del luogo, quello che apre la porta al vento,  quello che vende il mais, quello degli animali senza corna.



Gli animali con le corna non abitano più queste zone. Si tramanda che una strega attraversò la valle fermandosi nel pueblo di Coporaque e lì incontrò due giovani fratelli. Uno di questi era buono e gentile, mentre  l’altro era avido di ricchezza e desideroso di potere. La strega ascoltò da questi che la terra era arida e il bestiame era magro, e si viveva male. Allora la strega donò loro dei fiori e disse di piantarli al bordo delle loro proprietà, disse che era un dono di fertilità e che le cose sarebbero andate meglio. La strega se ne andò lasciando ai due l’arbitrio della propria sorte. Il giovane buono ascoltò i consigli della vecchia e le sue colture e il suo bestiame presero a diventare floridi nello spazio di un mattino. Il secondo fratello fu invece vittima della propria vanità non credendo alla strega. Prese i suoi fiori e li pose ai lati del sombrero per farsi ammirare dalle donne l’indomani ed essere salutato con più rispetto. Si addormentò con questa speranza, ma si risveglio con delle lunghissime corna, proprio dove stavano i fiori. E fu talmente preso dalla vergogna che scappò dal paese di nascosto e senza tornarci mai più, e si rifugiò su quelle montagne dove ancora oggi vivono i lama cornuti.



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I vulcani erano dei luoghi mistici per gli Incas. Calamità frequenti, siccità, carestie o terremoti li spingevano a riti propiziatori basati su sacrifici umani: nell’occasione non desiderata la cima del vulcano era il luogo più importante perché più vicino agli dei. Lunghe processioni accompagnavano un ristretto gruppo selezionato di sacerdoti e di vittime designate verso la sommità del monte. Prima dell’ultima scalata la processione si fermava in attesa e il piccolo gruppetto continuava l’ascesa. Gli agnelli di dio erano scelti tra i migliori esemplari che le città dell’impero mettevano a disposizione: i più belli, le più belle, i più intelligenti. Fin dall’inizio lasciavano le proprie case per venire educati in vista della possibile cerimonia.
Qui i bimbi erano storditi con della birra drogata e uccisi con un colpo di bastone. Poi venivano sistemati in posizione fetale, perché così l’anima poteva avere migliore occasione di rinascere e infine venivano calati in un piccolo pozzo, circondati da statuette e altri oggetti votivi. Circa venti anni fa una di queste cave è stata scoperta sotto i ghiacci più antichi e ha rivelato un corpo perfettamente conservato, nei suoi organi, nella pelle esterna, nel terribile sguardo vacuo e nel pallore di mummia che il gelo aveva permesso. La chiamano Juanita, dal nome del suo scopritore, e ora riposa in pace in un frigorifero trasparente, nella stanza più buia di un museo tetro di Arequipa. Riposa in pace, mentre tutti la guardano.



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Festa patria*



Piove sulla nazione in festa.
Lava via i peccati di tutti, e tutti guardano al cielo implorando pietà. Perché il Perù va amato, e tutti si amano e sono contenti di sfilare, di marciare sotto la pioggia. Il suo presidente è basso, cammina goffo verso la grande cattedrale di Lima e lo attendono vescovi, cardinali e ministri in un inestricabile conflitto di poteri secolari. Piove sulla cattedrale e lava meglio, perché è più sporco.
Piove sui sagrati delle altre chiese che celebrano ovunque per la festa di tutti. Le strade sembrano più pulite e la polvere rimane in terra. Le coccarde, le bandiere e le spille sono bianche e rosse e umide in un cielo plumbeo che minaccia giudizio e terribili profezie. Ma è una giornata di festa e la pioggia non rovina, non guasta e tutti saranno felici lo stesso e non hanno paura che la birra si annacqui. Oggi il presidente parlerà, e dirà di quello che ha fatto in un anno e tacerà di quello che avrebbe dovuto fare. Ma nulla potrà distrarre e nessuno si occuperà di null’altro che dell’amato Perù, perché esso va amato come il migliore dei figli, come il più bello. E la festa non può essere sacrificata in vece della normale vita quotidiana, e se i servizi devono funzionare che almeno li paghino di più, e così tutto costa il doppio perché il lavoro logora le feste e le uccide di noia.
La pioggia e le nuvole scure, invece, non possono rovinare nulla perché Dio le vuole: Dio festeggia col Perù e manda la pioggia come schiuma di spumante che cade giù dal cielo, e anche lui è felice e canta l’inno con gli altri.
Piove sulle marce militari, di soldati e scolari, e piove sulla sfilata dei professori che hanno sospeso lo sciopero per l’amata patria. Sfilano a braccetto e mantengono il viso serio, perché quando la festa finirà riprenderanno a colpirsi coi sassi e a combattere la personale guerra fratricida, sul suolo dell’amato Perù.
Piove sull’acqua avvelenata e sulle miniere di oro e tutto ossida e niente purifica. Perché il Perù va amato di più quando è preoccupato, quando la terra stessa ne soffre. A Calamanca piove senza soluzione, ma il paese è in festa e non importa e la giornata è speciale. Domani ci penseranno, domani ci penseremo, ma non oggi.
Oggi piove su tutto e su tutti nella festa di ciascuno, pulisce via i peccati almeno fino a domani, quando tutti si accorgeranno di avere i vestiti ancora sporchi e che le macchie non si son lavate via.



*Il 28 Luglio è la festa nazionale del Perù che in quel giorno del 1821 è diventato uno stato indipendente.


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