domenica 22 luglio 2012

Sexto


La capanna dello zio Manuel


“Anche in queste terre dimenticate abbiamo avuto un criminale nazista.
Era un tedesco apparso verso la fine degli anni sessanta, probabilmente spinto fino alle Ande da qualche rischio di denuncia. Era alto, biondo e con la pelle bianca: tanto chiara come chiaro era il fatto che fosse un uomo in fuga e non aveva nulla da condividere con i mulatti della zona.
Si sistemò in un campo, qui vicino, nei pressi di Juliaca. Si sistemò, con del buon denaro, e prese per sposa una contadina del pueblo. Non si può dire si fosse ambientato , anzi era sempre un po’ fuori posto, però sopravviveva e con molta circospezione e prudenza. Ma tutti sapevano che era un nazista.
Non passava mai per la città grande, aveva paura di denunce e arresti: i tedeschi che sono venuti qui in Sud America avevano tutti un passaporto falso, sono arrivati come olandesi o austriaci, con nomi sempre nuovi che quasi non si ricordano quelli vecchi. Ogni tanto trascorreva del tempo in una bottega del pueblo e rimaneva a bere e a giocare a carte e discuteva di calcio e di politica.
Veniva a messa ogni domenica, ma non poteva sopportare i discorsi del nostro gruppo di preti. Noi eravamo un gruppo progressista e parlavamo dell’uguaglianza sociale, contro le guerre, le discriminazioni. Non poteva sopportarci. Una volta io e altri tre preti siamo capitati in una taverna dopo la messa, e c’era anche lui. Disse, ‘Io non posso mangiare guardando in faccia dei preti comunisti’ e si alzò, sputando per terra.
‘Noi siamo preti comunisti e tu sei un nazi: puoi continuare a mangiare tranquillo!’, risposi.
Quello si mangiò la lingua e si guardò intorno spaventato, sudava come in preda alla febbre. Rimase in silenzio tutto il tempo, guardandoci di continuo e di nascosto. Qualche giorno dopo ho avuto occasione di parlargli e gli spiegai molto chiaramente cosa stava succedendo.
‘Uno dei preti dell’altra domenica si chiama Don Lucho e tu non lo sai. Fa parte di un gruppo di uomini che cercano i criminali nazisti in Sud America e ogni settimana si riuniscono per darsi nuove informazioni. Lui non ti ha mai denunciato. Se quelli ti trovano, ti ammazzano.’
Lui mi guardava serio e non avevo bisogno di aggiungere altro. Sono molti anni che non ho più sue notizie e credo che ormai sia morto: quelli come lui sono più che novantenni se son vivi.
Don Lucho, invece, era un prete ebreo. Era stato in un campo di concentramento con un altro suo amico seminarista. Non so perché li avessero presi, di solito i preti non li toccavano. Il suo amico era morto dopo un anno, mentre lui sopravvisse fino alla liberazione. Dormivano nello stesso letto e quando l’amico morì, Lucho  non poteva sopportare l’idea che quelli prendessero il corpo e lo bruciassero, e allora non disse nulla. Per una settimana dormì di fianco al cadavere in silenzio e senza rivelarlo, poi quando entrò in putrefazione non poté far nulla per nasconderlo e glielo portarono via.”
Io avevo ascoltato tutto il racconto senza obiezioni, ma non capivo bene. C’era qualcosa che non mi tornava, mi sembrava che non tutto seguisse la logica più semplice e percepivo un certo disordine in tutta la faccenda.
“Sì, ma perché nessuno l’ha denunciato?” dissi con timidezza e forse questa titubanza era una reazione inconsciamente protettiva, che voleva mettermi al riparo da tutte le tremende contraddizioni che avrebbero seguito la  sua risposta.
 “Claro, porque si no lo iban a matar”, mi disse con molta umanità.

***


Un’altra volta era un sabato e stavamo pranzando in parrocchia con un giovane del pueblo che andava ad abitare in un altro paesino.
“E così te ne vai in miniera…”, Manuel era sempre abbastanza aspro quando parlava di miniere.
“Sì, Padre” disse quello, come però a dire che non poteva farci nulla, ed era un destino già deciso  d’accordo con la propria povertà.
“Deve far freddo lì, quanti metri sono?”
“Padre siamo sopra i quattromila”
“Si, ma andate sottoterra, deve fare mucho frio lì sotto”
“E’ molto buio”
“Eppure sono curioso di vedere una di queste miniere, una volta ci sono passato accanto con il carro, ero con un amico e non capivo cosa fosse tutta quella sabbia ammucchiata; c’era un  ingresso quasi verticale, come un pozzo. Mi ha detto, ‘es una mina’, e poi mi indicava il piccolo pueblo che era da poco sorto lì accanto. Era pieno di ubriachi. Sarà davvero molto freddo lassù.”
“Padre, tutto il giorno stiamo con un passamontagna per le correnti d’aria, sono terribili”
“E poi mi immagino che sia pieno di putas.”
“Moltissime, Padre. Fa davvero molto freddo lì. Quando uno è in pausa o e ubriaco, va in cerca della puta e si fa portare a letto (cama).”
“E devi sapere”, disse Manuel rivolto a me, “che queste sono tutte chicas, tutte ragazzine. A volte le mandano gli stessi genitori, per far soldi. E’ davvero una cosa tremenda: passando con il carro, quel giorno, abbiamo visto anche di queste. E stavano mezze nude con un freddo della malora, avanti e indietro dalla mina, e in tutte le ore del giorno. E quella era una miniera piccola, non voglio pensare a cosa può succedere a Puerto Maldonado, là sì che è enorme”
Il minatore annuiva e guardava il piatto, ogni tanto portava un boccone di riso alla bocca. Non poteva risolversi a dire nulla, vittima e osservatore critico dello stesso terribile traffico.
“Tu ci vai per l’oro?”, chiese a bruciapelo Manuel.
“No, padre, io prendo lo stipendio nella settimana, e poi torno qui da mia moglie”
Manuel sembrava paternamente felice di questa risposta, e la conversazione diventò un po’ più leggera, arricchita di qualche aneddoto.
“Sai, una volta ero andato nella casa di due parrocchiani, per alcune faccende di burocrazie. Erano sposi novelli e ancora vivevano contenti. Come te, stavano per trasferirsi in uno di questi paesini di minatori. Lui in verità non lavorava nella mina, ma in un posto vicino dove teneva un’officina meccanica. La moglie invece passava il tempo in una di queste ‘botteghe’ di putas. Io  rimasi incredulo e subito chiesi al marito, ‘Pero tu saves que tu esposa es puta?’ dissi. Quello mi guardò bonariamente, senza cattiveria o risentimento e si strinse nelle spalle. La moglie invece rise, ‘No padre, no soy puta, soy dama de compañìa’. Io stavo a guardarla, muto. ‘Ya, Padre, soy dama de compañìa, no voy a la cama con los mineros”, e mi spiegò che il suo lavoro consisteva nel sedersi al tavolo dei minatori e istigarli a bere fino ad ubriacarsi, prepararli per le putas in un certo senso. ‘Dama di compagnia o puta’, pensavo: in fondo a me pareva la stessa cosa. E poi il marito?Bah…es realmente una barbaridad



***

Il lago Titicaca e Rio de Janeiro



Vi raccontano che il lago Titicaca è il lago più alto del mondo, ed è vero. Non vi dicono, però, che è grande quanto il Belgio e ci sono punti in cui l’orizzonte è troppo vicino e l’altra sponda troppo lontana, perché lo sguardo possa raggiungere l’altro lato. Ci sono posti in cui si vedono delle isole da lontano, alcune hanno degli alberghi lussuosi da trecento dollari a notte, altre sono sconosciute a chiunque e forse qualcuno ci vive pure. La barche si muovono da tanti porti, da Puno, da Copacabana, da Ccotos e da decine di piccoli moli sparsi sulla costa. Percorrono rotte turistiche, nelle prime ore della mattina e poi tornano prima che cali il sole perché spesso il vento è criminale. Sono naturalmente barconi a motore, per trasportare e lasciar vedere intorno, delle piccole vedette panoramiche, ma il sole è spesso accecante e riflette sull’acqua o sulla barca e rende tutto fosco e indistinguibile. Ci sono barchette a vela che approfittano della benedizione del vento e filano via senza motore e senza indugi, e superano altri tipi di imbarcazioni più antiche e più pure. Sono le armi bianche del mare, che fendono l’acqua a colpi di remi e pagaie, kayak e tradizionali imbarcazioni di bambù: gli scafi riempiti di materiale galleggiante che rimedia ai possibili spiragli tra le giunture.


Il lago è patrimonio dell’umanità, ma nello specifico se lo dividono il Perù e la Bolivia. Ci sono tre isole molto belle nella parte peruviana, le isole Los Uros, Taquili e Amantanì.
Le prime sono un arcipelago di piattaforme galleggianti, le chiamano isole flottanti. Sono molto vicine a Puño e questo migliora le possibilità di visitarle perché le barche partono anche nella tarda mattinata (invece Taquili e Amantanì richiedono una partenza previdente entro le otto della mattina dal porto della città, entro le sei da Caracoto). Si tratta di isolette molto frequentate dal turismo alternativo, anche se Puño è ormai una meta fissa per chi viaggia in Perù. Proprio per questa ragione presenta un’apparenza più accessibile rispetto a Juliaca, ma anche meno interessante. E’ una città abbastanza grande, distesa lungo un’insenatura del lago. Il marrone dei mattoni di creta e l’azzurro metallico dei tetti di lamiera domina il paesaggio, e le case si succedono a raggiera ed in discesa, avvicinandosi all’acqua. Nella collina più alta ci sta una statua di Cristo che apre le braccia come per contenere tutta la città e sembra di trovarsi a Rio de Janeiro tra spiagge e mare, ma è un’illusione passeggera che sparisce dopo la prima curva in discesa.



Il centro è una sorpresa per certi versi deludente: a dispetto di una maggiore tranquillità legata alla presenza di flussi internazionali (le auto sono interdette ad esempio), c’è la caduta della tipica città di mare turistica, con il corso popolato di negozi di souvenir , di fenomeni da baraccone e di scritte in inglese.
Il porticciolo è un’altra camminata simile, e le donne e gli uomini cercano di richiamare l’attenzione dei turisti prima che questi giungano ai posti di vendita ufficiali, e provano sempre a speculare un po’.


I traghetti sono sempre affascinanti e il percorso verso le isole Los Uros è molto tranquillo. La barca passa attraverso una via scavata tra le felci e raggiunge in mezz’ora le prime isolette. Sono piattaforme di terreno e radici che lo trattengono. Ogni complesso è l’unione di cinque o sei di queste vaste basi, tenute insieme tra loro da corde tese, ma tuttavia ancorate al fondo, per non essere anche delle isole vaganti oltre che galleggianti. Sopra il terreno sono  sistemate a strati perpendicolari, linee di bambù che rendono molto soffici le passeggiate. Sulle isole abitano delle famiglie, in case di legno, di paglia e di bambù e vivono di pesca o piuttosto di turismo.  Ogni isola offre artigianato locale (artesania) e gite sulle speciali imbarcazioni della tradizione. Le abitazioni sono alimentate con dei pannelli solari e le cucine sono poste su dei ripiani isolanti, in modo da non incendiare tutto.



Sono molte famiglie nelle varie isolette, e il capofamiglia si rivolge in spagnolo e in inglese e mostra una volta di più la tipica cadenza peruviana nello spiegare  le cose, un’oscillazione molto breve di frasi veloci e parole lente a marcare le puntualizzazioni più ovvie. Nell’ultima isola c’è un ristorante e nuove bancarelle, ma dopo due ore assolate rimane solo l’attesa del ritorno, sotto l’ombra delle tettoie.
(fine prima parte)


***

Nessun commento:

Posta un commento