domenica 29 luglio 2012

Séptimo


Arequipa



C’è una città molto grande ad Ovest di Puño che si chiama Arequipa.
Sono partito da Caracoto lunedì, nel pomeriggio. Il posto non era molto lontano (almeno se si fa riferimento alle distanze tipiche di un paese vasto come il Perù) e l’autobus era un buon trasporto. Si muoveva su una strada molto bella anche se tipicamente desertica, ma piena di scorci e qualche accenno ad una natura differente dai semplici sassi. Dovevo arrivare ad Arequipa dopo le sette, perché nei miei programmi era di dormire da un amico di Padre Manuel, un altro curato, ma meno missionario rispetto alle mie ultime illuminate conoscenze.
Padre René, mi aveva spiegato Manuel, è mezzo francese: ha vissuto molto in Francia anche se nato in Perù, ed ora vive ad Arequipa che è la seconda città del Perù e come tale molto caotica. Dovevo raggiungerlo nel suo appartamento in piano centro, dovevo mettermi d’accordo per telefono con la sua perpetua, la señora Magda, e avvisarla del mio arrivo, poi dovevo prendere un taxi.
La telefonata e il taxi sono stati momenti importanti del mio viaggio, un po’ come varcare una porta socchiusa con l’incoscienza di ciò che vi avrei trovato.
Non è difficile telefonare in Perù: ogni angolo di qualsiasi minuscolo pueblo di qualsiasi sperduta regione possiede una bottega che vende telefonate. Si chiamano locutorios e sono segnalati da un grosso cartellone verticale, colorato nello sfondo con delle lettere blu molto grandi in primo piano. Anche la stazione dei bus ne aveva parecchi, e sono entrato nel primo che aveva il prezzo esposto. “Señora Magda, soy l’amigo de Manuel. He illegado aqui, in Arequipa y ahora tomo el primero taxi para la casa”, le avevo detto un po’ meccanicamente, recitando male il discorso che mi ero appena preparato. Poi uscì per cercare il mezzo.



La diffidenza è una brutta compagna di viaggio e appena usciti fuori dalla stazione, rimasti soli l’uno accanto all’altra, mi raccontava cose orribili in un soliloquio di vecchie raccomandazioni che stavano registrate da qualche parte nella mia testa. Mi parlava dei tassisti che bloccavano la macchina, ti rapinavano e ti lasciavano al bordo della strada, ma non era certo un problema primario. Però mi faceva spavento, e mi faceva voltare a destra e a sinistra, di scatto e senza tranquillità, mi diceva che potevano prendermi da dietro con un coltello e per darsi tono mi raccontava di quell’altro volontario che due anni fa, “…e lui parlava bene lo spagnolo, non come te che sei peggio di un lama, era andato in giro solo a Juliaca, vicino al mercato e lo avevano capito che era uno straniero, lo avevano minacciato con un coltello e lasciato dei tagli sulle mani.”. Mi aveva anche detto una cosa strana e ne avevo riflettuto, cioè che io rappresentavo quello che gli altri non avevano, e in alcuni casi il motivo stesso per cui non potevano averlo.
Tutto questo mi metteva a disagio, così decisi di salutare la mia accompagnatrice e di non dividere con lei la spesa del viaggio. Fermai vari taxi, ma solo il terzo accettò di accompagnarmi, mentre gli altri due mi avevano guardato con la pietà per l’uomo carico di sventura e avevano scosso la testa, adducendo motivazioni risibili come il traffico e l’ora difficile. Il terzo mi aveva guardato fisso e aveva anche parlato del traffico, ma nei suo i occhi si vedeva di riflesso il mio aspetto da gallinaceo europeo, così mi disse, “Uhm…  Calle Pizzarro con Victor Lira… Hay mucha conjestion… Està bien ocho soles?”.
Così, ho imparato, si spenna un pollo.

***



Manuel mi aveva parlato poco di Padre René, in compenso mi aveva descritto un altro personaggio molto interessante: “Sai, qui a Juliaca abbiamo un altro tipo particolare. E’ anche lui francese, però vive in Perù da tanti anni, credo da venti o trenta. Sai, è la persona più radicale che conosca. Non è un prete, ma frequenta l’ambiente della chiesa da molto tempo e sta sempre con i poveri e gli ubriachi, parla con loro, mangia, beve e pure dorme con loro, sulle strade all’aperto. Sta lì accanto e fa attenzione che non si feriscano, che non bevano troppo. E’ davvero un brav’uomo, però è difficile avere dei rapporti normali perché nel suo estremismo spesso si comporta in maniera strana. Sostiene che bisogna vivere come i poveri e non avere abitudini differenti, perché è irrispettoso. Forse non è neanche una mancanza di rispetto per lui, quanto una forma di illogicità. E’ sempre piacevole conversarci, però è anche capitato, a volte, che venisse a trovarci in parrocchia con il suo gruppo di ubriachi, che si mettono a gridare, a cantare e a rompere e rubare le cose. Allora li abbiamo scacciati e lui non mi ha parlato per un anno. Aveva anche una moglie e una figlia che l’hanno lasciato per lo stesso motivo, stanche di questa forma di follia. Un giorno, poi, è scomparso per sei mesi, che noi pensavamo fosse morto di freddo in qualche angolo, dietro qualche albero. Quando è tornato, non si è fatto problemi di sorta ed è ripassato dalla parrocchia a mangiare e a rimproverarmi che non si poteva mangiare così tanto, che era una cosa immorale, che i poveri non hanno da mangiare.
In fondo gli vogliamo tutti bene, perché è un uomo buono. Una volta ci siamo spaventati a morte, anche più di quando è scomparso: lo abbiamo visto dalla strada, il corpo disteso al bordo della ferrovia, di fianco ad un altro corpo morto. Sembrava immobile e pensavamo che fosse davvero morto, forse rapinato e colpito. Ci siamo avvicinati e con sorpresa abbiamo visto che non solo era vivo e sveglio, ma stava anche parlando con l’altro uomo, che era invece ubriaco marcio. ‘Sai, Manuel’, mi disse, ‘E’ troppo importante avere rispetto per gli altri e bisogna avere cura di parlare di pari grado, guardandosi negli occhi.’ Capisci? E’ per questo che stava disteso, per poter avere l’occasione di parlare con l’altro, di spiegargli che bere molto fa male, ma sempre guardandolo con gli occhi alla stessa altezza.”



Padre René era francese, ma in un modo diverso. Aveva la pelle scura, ma quasi come fosse molto abbronzata, perché il sole di Arequipa non è così forte come a Puño e non macchia la pelle. Aveva però un aspetto un po’ particolare che lo faceva assomigliare ad un topo, per via di un naso all’insù e delle orecchie sproporzionate rispetto al corpo molto minuto. A questo aggiungeva dei capelli radi tenuti all’indietro con una specie di brillantina e degli occhialetti molto piccoli. Aveva anche dei movimenti nervosi e sebbene fosse molto gentile non riusciva ad essere accogliente, in un certo senso.
Parlava anche un po’ di italiano, ma non bene e da parte mia rispondevo sempre in spagnolo, un po’ per esercizio, un po’ per abitudine o educazione. Però è difficile pensare che fossero forme di reale comunicazione, anche perché Padre René ascoltava poco di quello che gli si diceva, molto preso da pensieri trasversali che uscivano irruenti e acuti per mezzo della sua voce, e cambiavano sempre argomento: erano nuove domande private del minimo interesse o delle storielle che facevano capo solo al filo dei suoi ragionamenti.


Il primo giorno, mentre stavamo pranzando, mi mostrava il suo cane vestito da supereroe, giallo e rosso. “E’ un gringo peruviano”, mi spiegava accarezzandolo e subito scacciandolo via a calci, “E’ un gringo negro”, continuava ridendo, ma io non capivo bene: “Ma perché è vestito?”, chiesi.
“Si brucia col sole”, mi disse scoprendo la parte di pelle coperta, ed effettivamente sembrava tenere un’abbronzatura da muratore, ma senza aver dovuto faticare molto.
“Sai, c’è una storiella che raccontano qui…”, aveva proseguito, “Si dice che all’inizio del tempo in Perù esistevano solo uomini bianchi. Un giorno però successe che uno di questi, ubriaco, si rivolse al diavolo cominciando a prenderlo a spintoni e riempiendolo di insulti. Il diavolo, che era insolitamente paziente, non poté resistere a lungo e all’improvviso si volse verso l’altro con le braccia alzate, le mosse di scatto con un gesto violento e puff! Il bianco era stato bruciato, ed era ora tutto nero. Questo per spiegare l’origine de los negros. Ma sai, questa è una storiella racista, che qui raccontano spesso. E’ molto vecchia”.

***



Non è però l’unica storiella che si racconta in queste zone leggendarie, dove il mito e la storia si fondono in una lega inestricabile di racconti tramandati ed evidenze archeologiche.
Arequipa è il contenitore ideale di queste leggende, situata in una valle circondata da vulcani millenari. Sono quattro o cinque vulcani sopra i seimila metri e salutano ogni mattino ben prima del resto della città: hanno in cima la neve perenne e sono così grandi da apparire sempre vicini e lontani. Il più vicino è El Misti, ha la forma di un cono perfetto e sovrasta il piano della città, ma non ne affetta il clima che rimane mite e tiepido per tutto l’anno. Le case sono piccole e gli abitanti sono moltissimi, tre milioni, dieci milioni o meno di un milione a seconda di quello che ti vuole raccontare chi te ne parla. E’ una distesa sterminata di abitazioni, con il vulcano che fa da guardiano, con l’aspetto sornione e la punta bianca. Tutta Arequipa è bianca, la chiamano La ciudad blanca perché le case sono fatte di Sillar, una pietra vulcanica di colore chiarissimo. Il centro è il nucleo abbagliante di questa distesa luminosa e si offre a molti turisti che ne visitano la cattedrale o le chiese più piccole. Vicino c’è un antico monastero dell’epoca della Conquista spagnola, nel 1580, ed è dedicato a Santa Caterina (Santa Catalina). Per secoli è stato il luogo di raccoglimento (ma non propriamente di preghiera) delle non primogenite dalle famiglie più ricche di Spagna. Per secoli le novizie hanno fatto voto di non povertà e perpetuavano la stessa viziosissima vita che portavano avanti prima dei voti. Tenevano schiave e amanti, e si divertivano in feste e orge spensierate. Questo idillio ebbe termine per opera congiunta di Papa Pio IX e una terribile suora domenicana, che costrinse le altre sorelle a muoversi più decisamente verso la dottrina e liberò la quantità di schiavi al loro servizio.



Il monastero è una piccola città nella città, un gioiello molto ben conservato che ha subito laboriosi restauri a causa dei frequenti terremoti che hanno imperversato nella zona negli ultimi secoli: si tratta naturalmente di sismi legati all’attività vulcanica, ma tutto il Perù è vittima di eventi di questo genere e ha ormai imparato, suo malgrado, a conviverci. Ed è anche per questo che le case sono normalmente molto basse e sembrano costruite con poco impegno.
Altri vulcani si trovano un po’ più lontano e si abbracciano in una valle molto famosa, chiamata Valle del Colca. Si tratta di un a lunghissima gola stretta tra le morse dei vulcani Coropuna e Ampato, entrambi sopra i seimila metri. Il punto più basso registra un dislivello di più di tremila metri e rende questa valle il canyon più profondo del mondo. La valle intera ospita numerosi paesini di origine Incas, poi deviati in seguito alla conquista spagnola. Dove ora ci sono le chiese, si racconta ci fossero templi dorati e culture ancora fiorenti. Ogni nome nasconde questa origine e fa riferimento ad antiche parole ormai perdute che richiamano a qualche particolare caratteristica del luogo, quello che apre la porta al vento,  quello che vende il mais, quello degli animali senza corna.



Gli animali con le corna non abitano più queste zone. Si tramanda che una strega attraversò la valle fermandosi nel pueblo di Coporaque e lì incontrò due giovani fratelli. Uno di questi era buono e gentile, mentre  l’altro era avido di ricchezza e desideroso di potere. La strega ascoltò da questi che la terra era arida e il bestiame era magro, e si viveva male. Allora la strega donò loro dei fiori e disse di piantarli al bordo delle loro proprietà, disse che era un dono di fertilità e che le cose sarebbero andate meglio. La strega se ne andò lasciando ai due l’arbitrio della propria sorte. Il giovane buono ascoltò i consigli della vecchia e le sue colture e il suo bestiame presero a diventare floridi nello spazio di un mattino. Il secondo fratello fu invece vittima della propria vanità non credendo alla strega. Prese i suoi fiori e li pose ai lati del sombrero per farsi ammirare dalle donne l’indomani ed essere salutato con più rispetto. Si addormentò con questa speranza, ma si risveglio con delle lunghissime corna, proprio dove stavano i fiori. E fu talmente preso dalla vergogna che scappò dal paese di nascosto e senza tornarci mai più, e si rifugiò su quelle montagne dove ancora oggi vivono i lama cornuti.



***

I vulcani erano dei luoghi mistici per gli Incas. Calamità frequenti, siccità, carestie o terremoti li spingevano a riti propiziatori basati su sacrifici umani: nell’occasione non desiderata la cima del vulcano era il luogo più importante perché più vicino agli dei. Lunghe processioni accompagnavano un ristretto gruppo selezionato di sacerdoti e di vittime designate verso la sommità del monte. Prima dell’ultima scalata la processione si fermava in attesa e il piccolo gruppetto continuava l’ascesa. Gli agnelli di dio erano scelti tra i migliori esemplari che le città dell’impero mettevano a disposizione: i più belli, le più belle, i più intelligenti. Fin dall’inizio lasciavano le proprie case per venire educati in vista della possibile cerimonia.
Qui i bimbi erano storditi con della birra drogata e uccisi con un colpo di bastone. Poi venivano sistemati in posizione fetale, perché così l’anima poteva avere migliore occasione di rinascere e infine venivano calati in un piccolo pozzo, circondati da statuette e altri oggetti votivi. Circa venti anni fa una di queste cave è stata scoperta sotto i ghiacci più antichi e ha rivelato un corpo perfettamente conservato, nei suoi organi, nella pelle esterna, nel terribile sguardo vacuo e nel pallore di mummia che il gelo aveva permesso. La chiamano Juanita, dal nome del suo scopritore, e ora riposa in pace in un frigorifero trasparente, nella stanza più buia di un museo tetro di Arequipa. Riposa in pace, mentre tutti la guardano.



***

Festa patria*



Piove sulla nazione in festa.
Lava via i peccati di tutti, e tutti guardano al cielo implorando pietà. Perché il Perù va amato, e tutti si amano e sono contenti di sfilare, di marciare sotto la pioggia. Il suo presidente è basso, cammina goffo verso la grande cattedrale di Lima e lo attendono vescovi, cardinali e ministri in un inestricabile conflitto di poteri secolari. Piove sulla cattedrale e lava meglio, perché è più sporco.
Piove sui sagrati delle altre chiese che celebrano ovunque per la festa di tutti. Le strade sembrano più pulite e la polvere rimane in terra. Le coccarde, le bandiere e le spille sono bianche e rosse e umide in un cielo plumbeo che minaccia giudizio e terribili profezie. Ma è una giornata di festa e la pioggia non rovina, non guasta e tutti saranno felici lo stesso e non hanno paura che la birra si annacqui. Oggi il presidente parlerà, e dirà di quello che ha fatto in un anno e tacerà di quello che avrebbe dovuto fare. Ma nulla potrà distrarre e nessuno si occuperà di null’altro che dell’amato Perù, perché esso va amato come il migliore dei figli, come il più bello. E la festa non può essere sacrificata in vece della normale vita quotidiana, e se i servizi devono funzionare che almeno li paghino di più, e così tutto costa il doppio perché il lavoro logora le feste e le uccide di noia.
La pioggia e le nuvole scure, invece, non possono rovinare nulla perché Dio le vuole: Dio festeggia col Perù e manda la pioggia come schiuma di spumante che cade giù dal cielo, e anche lui è felice e canta l’inno con gli altri.
Piove sulle marce militari, di soldati e scolari, e piove sulla sfilata dei professori che hanno sospeso lo sciopero per l’amata patria. Sfilano a braccetto e mantengono il viso serio, perché quando la festa finirà riprenderanno a colpirsi coi sassi e a combattere la personale guerra fratricida, sul suolo dell’amato Perù.
Piove sull’acqua avvelenata e sulle miniere di oro e tutto ossida e niente purifica. Perché il Perù va amato di più quando è preoccupato, quando la terra stessa ne soffre. A Calamanca piove senza soluzione, ma il paese è in festa e non importa e la giornata è speciale. Domani ci penseranno, domani ci penseremo, ma non oggi.
Oggi piove su tutto e su tutti nella festa di ciascuno, pulisce via i peccati almeno fino a domani, quando tutti si accorgeranno di avere i vestiti ancora sporchi e che le macchie non si son lavate via.



*Il 28 Luglio è la festa nazionale del Perù che in quel giorno del 1821 è diventato uno stato indipendente.


***

domenica 22 luglio 2012

Sexto


La capanna dello zio Manuel


“Anche in queste terre dimenticate abbiamo avuto un criminale nazista.
Era un tedesco apparso verso la fine degli anni sessanta, probabilmente spinto fino alle Ande da qualche rischio di denuncia. Era alto, biondo e con la pelle bianca: tanto chiara come chiaro era il fatto che fosse un uomo in fuga e non aveva nulla da condividere con i mulatti della zona.
Si sistemò in un campo, qui vicino, nei pressi di Juliaca. Si sistemò, con del buon denaro, e prese per sposa una contadina del pueblo. Non si può dire si fosse ambientato , anzi era sempre un po’ fuori posto, però sopravviveva e con molta circospezione e prudenza. Ma tutti sapevano che era un nazista.
Non passava mai per la città grande, aveva paura di denunce e arresti: i tedeschi che sono venuti qui in Sud America avevano tutti un passaporto falso, sono arrivati come olandesi o austriaci, con nomi sempre nuovi che quasi non si ricordano quelli vecchi. Ogni tanto trascorreva del tempo in una bottega del pueblo e rimaneva a bere e a giocare a carte e discuteva di calcio e di politica.
Veniva a messa ogni domenica, ma non poteva sopportare i discorsi del nostro gruppo di preti. Noi eravamo un gruppo progressista e parlavamo dell’uguaglianza sociale, contro le guerre, le discriminazioni. Non poteva sopportarci. Una volta io e altri tre preti siamo capitati in una taverna dopo la messa, e c’era anche lui. Disse, ‘Io non posso mangiare guardando in faccia dei preti comunisti’ e si alzò, sputando per terra.
‘Noi siamo preti comunisti e tu sei un nazi: puoi continuare a mangiare tranquillo!’, risposi.
Quello si mangiò la lingua e si guardò intorno spaventato, sudava come in preda alla febbre. Rimase in silenzio tutto il tempo, guardandoci di continuo e di nascosto. Qualche giorno dopo ho avuto occasione di parlargli e gli spiegai molto chiaramente cosa stava succedendo.
‘Uno dei preti dell’altra domenica si chiama Don Lucho e tu non lo sai. Fa parte di un gruppo di uomini che cercano i criminali nazisti in Sud America e ogni settimana si riuniscono per darsi nuove informazioni. Lui non ti ha mai denunciato. Se quelli ti trovano, ti ammazzano.’
Lui mi guardava serio e non avevo bisogno di aggiungere altro. Sono molti anni che non ho più sue notizie e credo che ormai sia morto: quelli come lui sono più che novantenni se son vivi.
Don Lucho, invece, era un prete ebreo. Era stato in un campo di concentramento con un altro suo amico seminarista. Non so perché li avessero presi, di solito i preti non li toccavano. Il suo amico era morto dopo un anno, mentre lui sopravvisse fino alla liberazione. Dormivano nello stesso letto e quando l’amico morì, Lucho  non poteva sopportare l’idea che quelli prendessero il corpo e lo bruciassero, e allora non disse nulla. Per una settimana dormì di fianco al cadavere in silenzio e senza rivelarlo, poi quando entrò in putrefazione non poté far nulla per nasconderlo e glielo portarono via.”
Io avevo ascoltato tutto il racconto senza obiezioni, ma non capivo bene. C’era qualcosa che non mi tornava, mi sembrava che non tutto seguisse la logica più semplice e percepivo un certo disordine in tutta la faccenda.
“Sì, ma perché nessuno l’ha denunciato?” dissi con timidezza e forse questa titubanza era una reazione inconsciamente protettiva, che voleva mettermi al riparo da tutte le tremende contraddizioni che avrebbero seguito la  sua risposta.
 “Claro, porque si no lo iban a matar”, mi disse con molta umanità.

***


Un’altra volta era un sabato e stavamo pranzando in parrocchia con un giovane del pueblo che andava ad abitare in un altro paesino.
“E così te ne vai in miniera…”, Manuel era sempre abbastanza aspro quando parlava di miniere.
“Sì, Padre” disse quello, come però a dire che non poteva farci nulla, ed era un destino già deciso  d’accordo con la propria povertà.
“Deve far freddo lì, quanti metri sono?”
“Padre siamo sopra i quattromila”
“Si, ma andate sottoterra, deve fare mucho frio lì sotto”
“E’ molto buio”
“Eppure sono curioso di vedere una di queste miniere, una volta ci sono passato accanto con il carro, ero con un amico e non capivo cosa fosse tutta quella sabbia ammucchiata; c’era un  ingresso quasi verticale, come un pozzo. Mi ha detto, ‘es una mina’, e poi mi indicava il piccolo pueblo che era da poco sorto lì accanto. Era pieno di ubriachi. Sarà davvero molto freddo lassù.”
“Padre, tutto il giorno stiamo con un passamontagna per le correnti d’aria, sono terribili”
“E poi mi immagino che sia pieno di putas.”
“Moltissime, Padre. Fa davvero molto freddo lì. Quando uno è in pausa o e ubriaco, va in cerca della puta e si fa portare a letto (cama).”
“E devi sapere”, disse Manuel rivolto a me, “che queste sono tutte chicas, tutte ragazzine. A volte le mandano gli stessi genitori, per far soldi. E’ davvero una cosa tremenda: passando con il carro, quel giorno, abbiamo visto anche di queste. E stavano mezze nude con un freddo della malora, avanti e indietro dalla mina, e in tutte le ore del giorno. E quella era una miniera piccola, non voglio pensare a cosa può succedere a Puerto Maldonado, là sì che è enorme”
Il minatore annuiva e guardava il piatto, ogni tanto portava un boccone di riso alla bocca. Non poteva risolversi a dire nulla, vittima e osservatore critico dello stesso terribile traffico.
“Tu ci vai per l’oro?”, chiese a bruciapelo Manuel.
“No, padre, io prendo lo stipendio nella settimana, e poi torno qui da mia moglie”
Manuel sembrava paternamente felice di questa risposta, e la conversazione diventò un po’ più leggera, arricchita di qualche aneddoto.
“Sai, una volta ero andato nella casa di due parrocchiani, per alcune faccende di burocrazie. Erano sposi novelli e ancora vivevano contenti. Come te, stavano per trasferirsi in uno di questi paesini di minatori. Lui in verità non lavorava nella mina, ma in un posto vicino dove teneva un’officina meccanica. La moglie invece passava il tempo in una di queste ‘botteghe’ di putas. Io  rimasi incredulo e subito chiesi al marito, ‘Pero tu saves que tu esposa es puta?’ dissi. Quello mi guardò bonariamente, senza cattiveria o risentimento e si strinse nelle spalle. La moglie invece rise, ‘No padre, no soy puta, soy dama de compañìa’. Io stavo a guardarla, muto. ‘Ya, Padre, soy dama de compañìa, no voy a la cama con los mineros”, e mi spiegò che il suo lavoro consisteva nel sedersi al tavolo dei minatori e istigarli a bere fino ad ubriacarsi, prepararli per le putas in un certo senso. ‘Dama di compagnia o puta’, pensavo: in fondo a me pareva la stessa cosa. E poi il marito?Bah…es realmente una barbaridad



***

Il lago Titicaca e Rio de Janeiro



Vi raccontano che il lago Titicaca è il lago più alto del mondo, ed è vero. Non vi dicono, però, che è grande quanto il Belgio e ci sono punti in cui l’orizzonte è troppo vicino e l’altra sponda troppo lontana, perché lo sguardo possa raggiungere l’altro lato. Ci sono posti in cui si vedono delle isole da lontano, alcune hanno degli alberghi lussuosi da trecento dollari a notte, altre sono sconosciute a chiunque e forse qualcuno ci vive pure. La barche si muovono da tanti porti, da Puno, da Copacabana, da Ccotos e da decine di piccoli moli sparsi sulla costa. Percorrono rotte turistiche, nelle prime ore della mattina e poi tornano prima che cali il sole perché spesso il vento è criminale. Sono naturalmente barconi a motore, per trasportare e lasciar vedere intorno, delle piccole vedette panoramiche, ma il sole è spesso accecante e riflette sull’acqua o sulla barca e rende tutto fosco e indistinguibile. Ci sono barchette a vela che approfittano della benedizione del vento e filano via senza motore e senza indugi, e superano altri tipi di imbarcazioni più antiche e più pure. Sono le armi bianche del mare, che fendono l’acqua a colpi di remi e pagaie, kayak e tradizionali imbarcazioni di bambù: gli scafi riempiti di materiale galleggiante che rimedia ai possibili spiragli tra le giunture.


Il lago è patrimonio dell’umanità, ma nello specifico se lo dividono il Perù e la Bolivia. Ci sono tre isole molto belle nella parte peruviana, le isole Los Uros, Taquili e Amantanì.
Le prime sono un arcipelago di piattaforme galleggianti, le chiamano isole flottanti. Sono molto vicine a Puño e questo migliora le possibilità di visitarle perché le barche partono anche nella tarda mattinata (invece Taquili e Amantanì richiedono una partenza previdente entro le otto della mattina dal porto della città, entro le sei da Caracoto). Si tratta di isolette molto frequentate dal turismo alternativo, anche se Puño è ormai una meta fissa per chi viaggia in Perù. Proprio per questa ragione presenta un’apparenza più accessibile rispetto a Juliaca, ma anche meno interessante. E’ una città abbastanza grande, distesa lungo un’insenatura del lago. Il marrone dei mattoni di creta e l’azzurro metallico dei tetti di lamiera domina il paesaggio, e le case si succedono a raggiera ed in discesa, avvicinandosi all’acqua. Nella collina più alta ci sta una statua di Cristo che apre le braccia come per contenere tutta la città e sembra di trovarsi a Rio de Janeiro tra spiagge e mare, ma è un’illusione passeggera che sparisce dopo la prima curva in discesa.



Il centro è una sorpresa per certi versi deludente: a dispetto di una maggiore tranquillità legata alla presenza di flussi internazionali (le auto sono interdette ad esempio), c’è la caduta della tipica città di mare turistica, con il corso popolato di negozi di souvenir , di fenomeni da baraccone e di scritte in inglese.
Il porticciolo è un’altra camminata simile, e le donne e gli uomini cercano di richiamare l’attenzione dei turisti prima che questi giungano ai posti di vendita ufficiali, e provano sempre a speculare un po’.


I traghetti sono sempre affascinanti e il percorso verso le isole Los Uros è molto tranquillo. La barca passa attraverso una via scavata tra le felci e raggiunge in mezz’ora le prime isolette. Sono piattaforme di terreno e radici che lo trattengono. Ogni complesso è l’unione di cinque o sei di queste vaste basi, tenute insieme tra loro da corde tese, ma tuttavia ancorate al fondo, per non essere anche delle isole vaganti oltre che galleggianti. Sopra il terreno sono  sistemate a strati perpendicolari, linee di bambù che rendono molto soffici le passeggiate. Sulle isole abitano delle famiglie, in case di legno, di paglia e di bambù e vivono di pesca o piuttosto di turismo.  Ogni isola offre artigianato locale (artesania) e gite sulle speciali imbarcazioni della tradizione. Le abitazioni sono alimentate con dei pannelli solari e le cucine sono poste su dei ripiani isolanti, in modo da non incendiare tutto.



Sono molte famiglie nelle varie isolette, e il capofamiglia si rivolge in spagnolo e in inglese e mostra una volta di più la tipica cadenza peruviana nello spiegare  le cose, un’oscillazione molto breve di frasi veloci e parole lente a marcare le puntualizzazioni più ovvie. Nell’ultima isola c’è un ristorante e nuove bancarelle, ma dopo due ore assolate rimane solo l’attesa del ritorno, sotto l’ombra delle tettoie.
(fine prima parte)


***

lunedì 16 luglio 2012

Quinto


Domande esistenziali



Il Comedor Estudiantil “Giordano Liva è un edificio celeste in mezzo a case rurali e spartane che non sentono il bisogno di coprire la propria costituzione con strati di vernice. Il celeste è un colore gioioso e può servire a riempire d’ottimismo chiunque si venga a trovare in questa zona. Oltre alla mensa, che è l’originale ragione del comedor, la struttura ospita il jardin, cioè l’asilo. La scuola elementare è stata istituita da poco e si trova in un palazzo diverso, ma molto vicino e sempre celeste.
Il sistema educativo peruviano è composto da tre livelli: una escuela inicial (dai 3 ai 5 anni), una escuela primaria (dai 6 agli 11 anni) e una escuela secondaria (dai 12 ai 17 anni). Il sistema di educazione pubblica è gratuito, ma qui nella regione di Puño si sistema ad un livello molto basso di professionalità e preparazione. “I professori del Colegio Nacional sono i miei peggiori nemici”, mi ha detto Manuel appena sono arrivato, “questi sono ignorantissimi, vanno a lezione ubriachi e quando sono sobri escono ad ubriacarsi con i loro studenti. Mi fa una rabbia…”
Tutti gli studenti peruviani (di qualunque ordine, grado e accessibilità) possiedono una uniforme generalmente costituita da un maglione intestato (a volte con cravatta) e un paio di pantaloni o una gonna. Da un certo punto di vista questa sembra la stessa procedura di avere tanta polvere in casa e coprirla con un tappeto persiano.
Anche i bimbi del comedor estudiantil hanno una graziosa divisa grigia e blu, con un sombrero da pescatore contro gli effetti del sole. Si tratta di un centinaio di bambini (compresi i ragazzi della primaria) che ogni giorno arrivano da diverse parti della zona per ricevere colazione, istruzione e pranzo. La mensa, però, dà da mangiare a molti altri: ci sono i bimbi del pueblo e gli stessi ragazzi del colejo nacional e si arriva a quasi centottanta bocche da sfamare ogni giorno.



Il pranzo e la colazione costano ai bimbi nove soles alla settimana (circa quaranta al mese) ed è un prezzo molto basso  anche per queste zone, dove una porzione di pollo alla griglia, il piatto popolare peruviano, costa circa otto soles.
“A volte, in situazioni particolari, alcuni bambini vengono esentati dal pagare”, mi spiegava Vicky, “Cerchiamo di capire chi può averne davvero bisogno e a volte per mezzo di amici di Manuel, a volte con i fondi del comedor stesso, si cerca di sollevarli dalle spese o di ridurgliele. Però non sempre questo modo di fare è opportuno: abbiamo verificato che se un ragazzo ha la possibilità di mangiare gratis, allora capita spesso che decida di non venire, perché tanto non perde nulla e magari i genitori non lo accompagnano o ne pretendono l’aiuto nei campi.
Nel jardin abbiamo solo cinque bambini che pro vengono dai campi: spesso è un problema di mobilità perché le strade non esistono e non c’è un servizio di trasporto che sia in grado di raggiungere tutte le zone vicine. I campesinos, d’altra parte non considerano molto importante l’istruzione, anzi la vedono come un’occasione di ritardo che leva loro la possibilità di sfruttare le braccia dei figli per il lavoro nei campi. Il problema è che a volte sono sfacciati e pretendono il pasto gratuito giustificandolo con lo stato di povertà, ma contemporaneamente spendono denaro per comprare la cerveza che li ubriaca ogni fine settimana.  Preferiscono una cassa di cerveza in più all’educazione del figlio.”
Nelle ultime settimane la mensa non funziona a regime: i professori delle scuole statali sono in sciopero indefinito da due mesi e i bambini che le frequentano stanno a casa o nei campi e non vengono a mangiare.
“E’ una situazione molto difficile e il peggio è che non se ne vede un’uscita. Lo sciopero è indefinito e non sappiamo quando potrà finire. I bambini ne ricevono un danno enorme.”

***




I bimbi sono molto affettuosi, mi chiamano “hermano Hugo” e la mattina vengono incontro salutando con un singolo bacio sulla guancia (qui si usa così) oppure ti porgono la mano con un più serio “Buenos dias, hermano”.  Alcuni arrivano a riversare una straordinaria gioia sotto forma di un abbraccio e pian piano te ne devi tristemente staccare.
Si divertono molto e giocano nel cortile del comedor, dove c’è un castello di plastica e i bimbi ne entrano e ne escono con fragore. Giocano con dei palloni o con le loro macchinine. A volte giocano a nascondino dietro le porte della cucina e tu li devi guardare severamente e dir loro “Beh, che state facendo qui, tornate nel cortile”, allora se ne vanno ridendo e scambiando uno sguardo complice: dopo un minuto sono di nuovo dietro la porta. Giocano alla palla avvelenata e a volte li vedi tutti immobili e silenziosi, quasi come si fosse fermato il tempo. Qui a Caracoto è una sensazione comune.
Mentre i bimbi studiano nell’asilo o nella scuola, io cerco di dare una mano alle señoras della cucina, Olinda, Irma, Ilda e Rosa.



Di solito mi mettono ad asciugare le stoviglie, a tagliare o sbucciare verdure, a volte mi usano per finire dei lavori particolarmente noiosi o di cui si sono stufate: ad esempio, pulire i gusci delle cozze dallo sporco depositato sopra, oppure rivoltare la roba che sta friggendo.
Alle señoras de la cocina le chiamano tias (zie), probabilmente perché sono più anziane di me e hanno diritto a formule più educate. Sono delle donne robuste e molto gentili e piene di sorrisi. La señora Olinda sembra il capo, forse perché si occupa della cucina del piatto principale, parallelo alla sopa. Ha un viso giovane e lineamenti molto dolci: passa il tempo a prendersi gioco di me (me broma), che capisco poco lo spagnolo.
“Esta es la professora Eveline”, mi presenta alle persone e io sorrido e rispondo “Buenos dias! Mucho gusto!”. Poi quando la maestra s’è allontanata Olinda mi si avvicina e mi dice sottovoce “Ella tiene venticuatro años, como ti…” e ammicca con lo sguardo.
Altre volte mi fa ripetere delle parole che poi scopro essere delle mala parabras, e tutte le altre si distraggono dalle loro attività e ridono fino a spanciarsi. Dopo, piano piano, Rosa riprende a lavare i piatti, Irma a sbucciare le mele e Ilda a pulire i tavoli, e con calma mi spiegano l’errore. 
La señora Olinda e un prete amico di Manuel, Don Luis, sono gli unici che mi insegnano le parolacce.
Don Luis è un sacerdote argentino, detto El turco, per via delle origini arabe dei suoi discendenti. Non ha, in verità, dei lineamenti che ne ricordino la provenienza e d’altra parte lo chiamano turco anche se i suoi nonni erano libanesi. Ma qui se sei arabo ti chiamano turco. Don Luis ha una barba folta, ormai quasi completamente grigia e degli occhialetti rettangolari. Sulla testa tiene un berretto di lana, un po’ per il freddo e un po’ per coprire le calvizie. Ha l’aspetto del marinaio, seppur lontano dal giusto contesto. D’altra parte fa il prete, ma anche in questo ambiente sembra essere un pesce fuor d’acqua. Litiga spesso col vescovo (con tutti i vescovi, mi spiegava ridendo padre Manuel che gli vuole molto bene).
La prima volta che l’ho incontrato ha cominciato dicendo, “El obispo! La concha de su mama! Como se dice in italiano…” e aveva sistemato le mani come a contenere due invisibili noci di cocco e le agitava un po’ in alto e un po’ in basso. “No, no testìculos. Como dices por decir huevon?”, “Bien, sì, il vescovo è un coglione!” provava a dire in italiano, chiedendomi poi “Es correcto?”
  
***



A mezzogiorno i bimbi più piccoli cominciano a mangiare e io ho il compito di aiutarli a consumare tutto e di stimolarli un po’, quando sono troppo distratti o persi nel loro mondo di automobili e principesse.
Alcuni sono davvero molto piccoli e spesso non sono in grado di nutrirsi da soli; altri sono un po’ problematici e si fanno pregare. Il mio limitato vocabolario si è arricchito in questi giorni dei termini fondamentali per interagire coi bambini: come!, mastica!, passa la comida!, appurate!, e quelli a volte obbediscono, a volte chiudono il muso, e tu gli devi dire di aprire la bocca e forzare anche un po’ per combattere i loro capricci. A volte è un lavoro ingrato e non sembra giusto sgridare chi non riesce a mangiar tutto, però è anche molto importante che questo accada. Per i momenti difficili, sul finire del pranzo, arrivano le maestre più energiche, che partono con dei decisi “Come Valentinaaaa!” e quella obbedisce, suo malgrado.
Ci sono bambini che si servono già da adulti, attenti alla pulizia e l’igiene, e ci sono altri che invece si sporcano sempre, perché non guardano il cucchiaio, lo inclinano troppo, pensano di aver fretta di uscire per giocare.
Sebastian è un nino così, si sporca perché si distrae, sta sempre con gli  occhi chiusi e mezzo addormentato: sua madre lavora in un locale notturno a Juliaca e lo porta con se perché non ha a chi lasciarlo. Lui si gode la movida e di giorno dormicchia.
Poi c’è Valentina, che si giustifica sempre dicendo che lei non deve comer, che la madre non vuole, e ti fa dei discorsi lunghi con un incedere di “porque esto… porque l’otro…”, ma alla fine non è mai vero e mangia malvolentieri.
Ci sono i due che litigano sempre, Juan e Miguel, si fanno i dispetti l’un l’altro: la banana nella sopa, il cappello sotto i piedi, si tirano qualche schiaffo. La maestra comincia a gridare e questi si voltano avanti e guardano in basso, aspettando che la pressione dello sguardo esterno si faccia più blanda. A quel punto ricominciano.
Poi c’è Leo, che mangia lento, ma è un osservatore. Ha due occhi molto pieni e le pupille nere nere coprono tutto lo spazio che c’è. Ti guarda, ha ancora tutto nel piatto. Tu fai lo sguardo severo e fai finta di giudicarlo male. Lui però aggiunge uno sorriso agli occhi neri neri: a quel punto non puoi fare più niente.



***

Di galli, di morte e di altre sciocchezze

Padre Manuel  era alla ricerca del suo Don Abbondio personale. Si trattava di organizzare la festa di un giovane prete che avrebbe celebrato la sua prima messa proprio a Caracoto, la domenica successiva: proprio nello spirito dell’avvenimento, Manuel  stava mettendo in avviso i conoscenti più stretti (il pretino era stato allievo del seminario di Juliaca) per invitarli alla ricorrenza. Era riuscito a chiamare tutti, meno un curato: “Non trovo il cura”, diceva con una costruzione quasi lombarda, ma con un accento fortunatamente diverso.


Lo aveva chiamato e aveva lasciato dei messaggi ai collaboratori più stretti, ma il cura non lasciava tracce di sé, né speranze per il futuro. Allora, nella migliore tradizione non biblica, padre Manuel aveva pensato di recarsi egli stesso alla montagna dove il cura era dimorato e noi di seguito per fare un gita.
La parrocchia del cura si trovava a Pukarà, una cittadina sessanta chilometri a nord di Juliaca. La strada per raggiungerla separava l’altipiano in due parti quasi uguali e solo a volte lasciava spazio a sporadici esempi di natura diversa dal deserto: qualche altura, un piccolo rio. Il resto, sepolto dal sole lungo del pomeriggio, erano sassi e sterpaglie secche per tutto il percorso.



Pukarà ci salutava già un po’ annoiati e accaldati, ma si presentava con una buona luce e dei buoni colori garantiti da una montagnola che proteggeva un lato del paese. Si stava facendo bella per l’inizio della sua festa, la stessa sera, con striscioni e bandiere, il pueblo era pulito e stava ancora nella fase della siesta più lenta: mentre ci avvicinavamo alla parrocchia, non pareva esserci anima viva.
Compreso il curato, naturalmente.



Padre Manuel nascondeva l’ennesima seccatura dietro alla solita apparenza bonaria: ci accompagnò sul costone dell’altura mostrandoci delle rovine di antiche popolazioni precedenti agli Inca (800-1000 d.C).
Si trattava di edifici abbastanza ben conservati (almeno nelle mura perimetrali) che stavano proprio sulla sommità di una imponente successione di vasche, una sotto l’altra, come una scala sulla discesa della montagnola. Le vasche raccoglievano l’acqua e la conservavano per le svariate esigenze. Ora non c’era più acqua ma queste erano riempite fino al culmine di terra e di prati.
Le rovine molto antiche mi trovano sempre in uno stato di ignorante passività, che lascia di solito la capacità di imparare e conoscere cose nuove, ma mi inibisce dal poter immaginare questi posti immobili come pullulanti di anime vive e attive. Questo mi capita nella maggior parte dei casi, ma stranamente quel pomeriggio le rovine morte erano piene di una vitalità inconsueta e ospitavano decine di mariachi  ballerini che suonavano e muovevano il corpo a tempo: giravano uno spot pubblicitario, ma a noi pareva ci accompagnassero vivacemente alla macchina.



***


Sulla via del ritorno ci siamo fermati alla fiera d’inaugurazione della festa di Pukara.
Era una riunione di camion, moto, animali e venditori di tutto.
C’erano vacche ovunque e una, più fiera, portava al collo una coccarda rossa e bianca a testimonianza della superiore bellezza e formosità. Le altre meste e in fila cominciavano a riempire i vagoni dei camion da bestiame.
Vacche, pecore, asini e perfino qualche lama: mi pareva di percepire l’assenza di qualcuno e chiesi lumi a Manuel. “No, qui ci sono pochissimi cavalli, è un problema di comida scarsa, non c’è molto da mangiare”, mi rispose gentile, ma mentre lo diceva ci passava a fianco un camion che esibiva nitriti e crini sporgenti e a me parve il caso di guardare altrove.
Nelle vicinanze c’erano tiendas che vendevano formaggi della regione, di norma poco stagionati e molto morbidi, prendono la forma del pagliericcio che li contiene. I venditori della zona hanno prezzi diversi, a seconda che la tua pelle sia bianca o mulatta, e Padre Manuel manda sempre Johnny a comprare per risparmiarsi i tre soles di differenza.



Non c’era molta gente nelle tiendas perché un evento più grosso pareva aver conquistato l’attenzione di tutti, circa un centinaio di persone sistemate intorno ad un recinto da rodeo. Era in atto la lotta senza speranza tra due galli di combattimento e la gente osservava appassionata e a volte con un interesse anche personale: “Fanno combattere i galli per scommessa, è terribile”, commentava Manuel mentre io stavo osservando da lontano, sporgendo la testa per trovare uno spiraglio nella densità di persone accalcate.
“A Puño è peggio!”, continuava, “Là  c’è una festa ogni anno e fanno combattere un condor e un toro, io l’ho vista una volta, ma è terribile e lunghissima perché il toro non riesce a vedere il condor che lo aggredisce dall’alto e soffre molto. “
Il gallo rosso era più aggressivo e più cattivo del gallo giallo. Con violenza lo riempiva di beccate e quell’altro saltava come per una scossa forte e si stendeva da un lato, poi di nuovo veniva attaccato e di nuovo saltava e giaceva in attesa. Cinque o sei beccate forti e il gallo giallo era anche lui diventato rosso, e fu portato via nella gioia di chi lo aveva dato perdente. Il combattimento era finito e il vincitore si godeva la vittoria e veniva portato anche lui per il campo, questa volta in trionfo.
I polli non sono delle mascotte fortunate qui in Perù.
Il gallo peruviano è una bestia piena di grasso, ne è circondato per proteggersi dal freddo pungente, e per mezzo di esso genera sapori ricchi e peculiari quando viene cotto alla griglia. Per questa ragione i peruviani lo amano con ferocia e con un po’ di perversione. I polli vengono portati vivi nelle botteghe delle città e fin dalla mattina si assiste all’ufficio di un mattatoio pubblico, solo a volte velato da una tenda di tela. Il pollo è più buono appena ucciso e questo basta a giustificare il sadismo dei pollicidi: lo strozzano,lo spiumano e lo pelano appena morto, e dopo pochi secondi nell’acqua bollente viene messo su un tavolo e la testa gli vola via, mozzata ma già esangue. Sullo stesso tavolo un guanto bianco gli cava via delle viscere dall’interno e lo passa, così, pulito, alla ragazza del bancone, che lo espone tra gli altri polli e comincia a gridare “Pollo fresco! Pollo!”.
Sulla strada una señora sta camminando e forse cerca il suo mezzo pollo per il pranzo, si volta, si ferma e lo compra. E a quel punto il colpo è netto e il pollo è già la sua metà.



***



martedì 10 luglio 2012

Cuarto


Napoleone in Russia



A Caracoto fa un freddo porco.
Di notte la temperatura scende sotto lo zero, meno dieci, anche meno diciotto. Padre Manuel una volta mi raccontava che il sabato prima della festa di San Giovanni è la notte più fredda dell’anno. Purtroppo, alla mia età, non credo più alle leggende o alle superstizioni* e sono costretto a dialogare con ciò che la realtà  mi presenta.
In questi giorni c’è un freddo ben peggiore del sabato di San Giovanni e tutto il tempo trascorre con la giacca addosso. Fuori o dentro, in realtà è lo stesso: le case sono costituite da sottili muri di mattone e creta e le finestre sono delle sagome intagliate nel loro stesso sostegno di vetro, lasciando ampie possibilità alla traspirazione delle stanze. Non esistono le forme di riscaldamento automatico (calefaccion) e l’acqua calda proviene da un piccolo silos messo sul tetto delle case, ma d’inverno è sempre fredda e allora per lavarsi si sfruttano delle resistenze elettriche nei doccini.
Dopo il tramonto la temperatura cala all’improvviso e il comedor diventa un posto difficile da abitare ed è opportuno cercare scappatoie: la casa di Padre Manuel ad esempio, con il camino e una preziosa stufa a gas, diventa un rifugio solidale e fortunato dove trascorrere l’attesa delle ore notturne e la cena.  
Di notte, si trova un piccolo spazio vitale sotto il peso di cinque o sei coperte e con un berretto di lana in capo finalmente si può dormire.
Il sole è una benedizione quasi quotidiana e solo rare volte il cielo si è coperto di nuvole. Un cielo grigio in un altipiano è più minaccioso che in altri scenari, sarà una questione di colori oppure  del tormentato rapporto che ci lega a ciò che pare non avere una fine.


Quando c’è il sole però si è contenti; gli angoli bagnati dalla luce sono piccoli tesori di cui cibarsi con avidità. Molto spesso ci sono dieci gradi di differenza tra le zone illuminate e le parti in ombra e ci si trova a camminare su piste accecanti con la faccia che si rivolge là dove può prendere vita.
In un posto così particolare i momenti della giornata sono scanditi dalla presenza della luce e ci si alza all’alba, con il canto del gallo. Sotto le coperte non fa freddo, ma il risveglio è una successione di movimenti studiati per non disperdere calore, per non subire traumatici brividi. Uno dei riti quotidiani è la colazione (desajuno) al comedor: qui si mangiano panini ripieni (patè di fegato,uovo, carne o marmellata a seconda dei giorni) che si accompagnano con una copa di mate o di latte e maizena (o avena). E’ un momento importante, in cui ogni difficoltà diviene più leggera, e ci si sazia di un primo momento di insperato calore.
Dopo si sta un po’ al sole..

*Mi hanno raccontato, ad esempio, che a Machu Picchu esistono delle pietre speciali,al cui contatto si può trarre una forma di energia unica, preziosa e millenaria. Sono curioso, presto mi informerò meglio a riguardo.

***



Durante queste mattine, si chiacchiera molto con il direttore della scuola elementare, Hector, e con uno dei maestri, Edwin. “Buenos dias! Que tal?” o “Hola! Que tal?” mi dicono spesso: sono i saluti più diffusi nel sud del Perù. A volte si sente un rivoluzionario “Buen dìa”, e a me viene da pensare a Macondo, che esista davvero e che si trovi dove mi trovo anche io, ma qui, del colonnello Aureliano, ancora non c’è traccia.
In piedi, Hector e Edwin aspettano l’arrivo di tutti i bambini, per poter andare poi nella scuola, che sta in un altro edificio. Nel frattempo si riscaldano e conversano con me, con pazienza e con chiunque altro capiti a tiro.
Chi passa per la strada saluta con cordialità e sorride. Nella maggior parte dei casi sono sorrisi rovinati da denti falsi o guasti, ma gli occhi sono spesso molto belli e la gentilezza si trasmette anche attraverso di quelli.
Gli occhi del Señor Saphroner che ci salutava una mattina erano di un colore metallico, tra il grigio e il blu. “Buenos dias!”, diceva con timidezza. Il tipico colorito mulatto della faccia era incorniciato da una barbetta bianca un po’ rada mentre, nella parte alta, teneva un cappello americano per riparare dal sole i solchi profondi della fronte.
Non capivo molto bene cosa dicesse, ma sentivo che parlava di un hermano, dell’Italia e del trabajo. “Tiene un hermano in Italia”, mi ha riferito Edwin vedendo la mia espressione un po’ distratta. “Da venti años!”, aveva continuato, sembrava divertito.



“Donde està in Italia?”  avevo chiesto, ma quello un po’ spaventato si girava intorno, prima a destra e poi a sinistra. Non sapeva, non ricordava?
“Mi papas tambien eran italianos”, aveva aggiunto per cambiare discorso, ma nel frattempo aveva anche ritrovato un nome per rispondere alla domanda di prima: “A Genova! Por el trabajo… in Perù poco trabajo”
Edwin continuava a sorridere e chiedeva da quanto tempo non lo vedesse.
“Venti años, sì, venti años” diceva un po’ sconsolato, e poi continuando “sì, l’he visto l’año pasado, no…hora son dos años!”
Il mio spagnolo incerto non poteva darmi sicurezza nelle contraddizioni degli altri e allora ero rimasto ad ascoltare e ad annuire, come spesso mi è capitato in queste settimane.
“Mira! No entiende bien”, spiegava Edwin al vecchio indicandomi, “Pero tu hables un poco italiano, no?”
“Hablo italiano, sì, hora no lo recuerdo”, sorrideva ancora, “hablo tambien inglès!” continuava circondato da visi allegri e un po’ di crudeltà, “Y latin! Y latin!”, diceva riprendendo a camminare e salutandoci.
“Si imagina las cosas” , diceva Edwin quando era lontano e mi raccontava di quando andava in giro millantando di essere l’Alcalde di Caracoto, perché c’erano dei problemi e lui li avrebbe risolti, e diceva “Yo soy l’Alcalde, soy l’Alcalde”, minacciando di far arrestare la gente che lo prendeva in giro. “Es un pochito loco, me entiendes?”.
Io lo capivo e risposi “pazzo!” quando mi chiese come si esprimeva lo stesso concetto in italiano.
“Es pazo!”  concluse.

***

Juliaca



Avevo detto di Juliaca che era una città confusa. In queste settimane ci sono tornato varie volte, con il Padre, con Vicky e con Johnny, non mutando mai la prima impressione. All’inizio ho pensato che si trattasse della confusione caotica di ciò che non è ben sistemato (magari le strade strette, pochi marciapiedi, leggi imprecise) perché ad un osservatore esterno il traffico appare davvero come un attributo particolare e inconsueto.
Le automobili e le corriere sono perlopiù di marca asiatica, con qualche coloratissimo maggiolino Volkswagen a fare da sporadica eccezione. Tutte queste si muovono sulle strade come le molliche di pane trasportate da un nugolo di formiche operaie, in questo caso i minitaxi e i risciò. L’anarchico spostamento in avanti pare essere l’unica spinta di un movimento globale altrimenti complesso e imprevedibile. La precedenza non è un obbligo legale, né una forma di cortesia: ogni volta che poggi il piede sul freno per prudenza o anche solo per non mettere sotto qualcuno, vieni investito (questa volta tu) da un irruente rumore di clacson, quelli potenti dei camion, ma anche le trombe da Carnevale che si trovano nei risciò. Probabilmente è solo una forma d’abitudine perpetuata senza cattiveria, ma rappresenta ugualmente il sottofondo sonoro di tutti i minuti di Juliaca.
Questo “flusso in avanti” è ostacolato da deviazioni nel cammino: bivi, semafori, persone sedute per terra e carrette di venditori ambulanti; rarissime volte  si esibiscono nella loro palese impotenza, gli ausiliari del traffico, fanno cenni al vento e questionano sulla cintura di sicurezza o sugli adesivi che mancano alla macchina



Il traffico, questo aspetto della città, è solo una parte limitata di un fenomeno più complesso, una specie di “confusione di intenti”, che appare invece in altre situazioni.
Juliaca è una città sterminata e le vie si somigliano tutte, in un modo che a prima vista appare inestricabile. Ogni angolo è un punto di vendita e ogni oscura bottega è un distributore di servizi.  La prima occhiata più attenta riempie la mente di quello che può sembrare essenziale per gli abitanti e ovunque si incontrano pollerias , clinicas dental e farmacias, ma non è tutto.
Addentrandosi nella profondità dei dettagli si comincia ad intuire una logica più specifica. Il giorno in cui siamo stati al mercato, Vicky me l’ha sintetizzata molto bene; mi ha detto, “Ogni calle è specializzato nella vendita di qualcosa: questo ad esempio è il calle dei condimientos” e mi indicava la fila di botteghe riempite da quantità di pesantissimi sacchi di erbe, peperoncini secchi, spezie e tutto quanto può servire a dare sapore alla carne e alla sopa.
Poi siamo passati attraverso il calle dei calzolai , quello degli arrotini, quello dei venditori di pelli e quello dei venditori di carne. Il calle dei parrucchieri (pelluqueros) e dei saloni di bellezza era una coloratissima successione di cartelli di propaganda, facce di divi e poltrone girevoli. Sembravano dire “Vieni da me e avrai i capelli di Brad Pitt oppure la tinta bionda di Shakira, vieni, dai, entra…”, ma parevano non ricevere ascolto da nessuno, e ogni peruviano, anzi, esibiva il taglio classico, cortissimo ai lati e un po’ più folto davanti, eternamente scuro.



Quella mattina andavamo al mercato a fare la spesa per la settimana. Vicky e Ilda, una delle cuoche, si muovevano con disinvoltura in mezzo alle botteghe (tiendas) ambulanti. Avevano esperienza e contatti di fiducia e con la loro lista andavano prima da quello per il riso e lo zucchero, poi da quell’altro per la verdura, poi dalla signora della carne “perché è l’unica che tiene la bilancia sullo zero”.
E la frutta? “No, per la frutta dobbiamo andare in un mercato più lontano, perché è fresca e costa meno”, e ci muovevamo verso un’altra zona della città. Lasciavamo ogni volta il sacco nella bottega, lo avremmo ripreso dopo con l’auto e con Johnny, che sarebbe venuto per riportarci a Caracoto.
I mercati di strada si somigliano un po’ tutti e questi non facevano eccezione. I venditori gridavano, a volte con megafono, richiamando da quella parte, dove le mele costavano un sol al chilo, oppure c’erano altri che esibivano i loro venti sacchi di patate, ciascuno una varietà differente.
E in quasi ogni tienda stavano i frutti e le verdure tipici del Sud America, papayas, chirimoyas,granadillas e paltas; e c’erano anche pannocchie di mais inca (maiz blanco e maiz negro) con dei grani molto grossi. Dal mais bianco tirano fuori delle specie di popcorn dolci, per spuntini senza pretese; dal mais nero una bevanda calda, molto saporita, la chicha morada.



Il sole era molto caldo e ogni banco era riparato da tende di nylon tenute molto basse. La frutta era deposta a montagnola su grossi teli sulla strada e a volte ne occupava un pezzo troppo ampio, di modo che nemmeno i risciò riuscivano a passare. Allora cominciavano a strombazzare coi clacson e i venditori rispondevano gridando e tutto si esauriva, come d’abitudine, nel rumore.
In mezzo alla strada stavano anche i carretti che vendevano salteñas, delle specie di calzoni (ma dalla consistenza più biscottata) ripieni di verdure e carne. Sono tra le specialità della regione di Puño, molto saporite e a buon mercato: quando ne compri, per condirlo ti offrono del limone e delrocoto, una salsa piccante a base di peperoni.



Altri ambulanti vendevano della carne fritta e delle patate, oppure del pollo alla griglia (che è il piatto popolare peruviano). Ovunque ti voltassi, a qualunque ora, potevi trovare qualcosa da mangiare sul posto e potevi vedere gente che già mangiava.
Mi tornava in mente la prima occhiata (pollerie, dentisti e farmacie) e pensavo che in fondo si trattava di una successione logica di necessità collegate; pensavo anche a questa fame senza scopo, senza equilibrio e senza regole che accompagnava tutti per ogni momento.
Ci pensavo molto seriamente e con metodo. Nel frattempo avevo comprato una salteña, e stavo già mangiando anche io.



***