lunedì 16 luglio 2012

Quinto


Domande esistenziali



Il Comedor Estudiantil “Giordano Liva è un edificio celeste in mezzo a case rurali e spartane che non sentono il bisogno di coprire la propria costituzione con strati di vernice. Il celeste è un colore gioioso e può servire a riempire d’ottimismo chiunque si venga a trovare in questa zona. Oltre alla mensa, che è l’originale ragione del comedor, la struttura ospita il jardin, cioè l’asilo. La scuola elementare è stata istituita da poco e si trova in un palazzo diverso, ma molto vicino e sempre celeste.
Il sistema educativo peruviano è composto da tre livelli: una escuela inicial (dai 3 ai 5 anni), una escuela primaria (dai 6 agli 11 anni) e una escuela secondaria (dai 12 ai 17 anni). Il sistema di educazione pubblica è gratuito, ma qui nella regione di Puño si sistema ad un livello molto basso di professionalità e preparazione. “I professori del Colegio Nacional sono i miei peggiori nemici”, mi ha detto Manuel appena sono arrivato, “questi sono ignorantissimi, vanno a lezione ubriachi e quando sono sobri escono ad ubriacarsi con i loro studenti. Mi fa una rabbia…”
Tutti gli studenti peruviani (di qualunque ordine, grado e accessibilità) possiedono una uniforme generalmente costituita da un maglione intestato (a volte con cravatta) e un paio di pantaloni o una gonna. Da un certo punto di vista questa sembra la stessa procedura di avere tanta polvere in casa e coprirla con un tappeto persiano.
Anche i bimbi del comedor estudiantil hanno una graziosa divisa grigia e blu, con un sombrero da pescatore contro gli effetti del sole. Si tratta di un centinaio di bambini (compresi i ragazzi della primaria) che ogni giorno arrivano da diverse parti della zona per ricevere colazione, istruzione e pranzo. La mensa, però, dà da mangiare a molti altri: ci sono i bimbi del pueblo e gli stessi ragazzi del colejo nacional e si arriva a quasi centottanta bocche da sfamare ogni giorno.



Il pranzo e la colazione costano ai bimbi nove soles alla settimana (circa quaranta al mese) ed è un prezzo molto basso  anche per queste zone, dove una porzione di pollo alla griglia, il piatto popolare peruviano, costa circa otto soles.
“A volte, in situazioni particolari, alcuni bambini vengono esentati dal pagare”, mi spiegava Vicky, “Cerchiamo di capire chi può averne davvero bisogno e a volte per mezzo di amici di Manuel, a volte con i fondi del comedor stesso, si cerca di sollevarli dalle spese o di ridurgliele. Però non sempre questo modo di fare è opportuno: abbiamo verificato che se un ragazzo ha la possibilità di mangiare gratis, allora capita spesso che decida di non venire, perché tanto non perde nulla e magari i genitori non lo accompagnano o ne pretendono l’aiuto nei campi.
Nel jardin abbiamo solo cinque bambini che pro vengono dai campi: spesso è un problema di mobilità perché le strade non esistono e non c’è un servizio di trasporto che sia in grado di raggiungere tutte le zone vicine. I campesinos, d’altra parte non considerano molto importante l’istruzione, anzi la vedono come un’occasione di ritardo che leva loro la possibilità di sfruttare le braccia dei figli per il lavoro nei campi. Il problema è che a volte sono sfacciati e pretendono il pasto gratuito giustificandolo con lo stato di povertà, ma contemporaneamente spendono denaro per comprare la cerveza che li ubriaca ogni fine settimana.  Preferiscono una cassa di cerveza in più all’educazione del figlio.”
Nelle ultime settimane la mensa non funziona a regime: i professori delle scuole statali sono in sciopero indefinito da due mesi e i bambini che le frequentano stanno a casa o nei campi e non vengono a mangiare.
“E’ una situazione molto difficile e il peggio è che non se ne vede un’uscita. Lo sciopero è indefinito e non sappiamo quando potrà finire. I bambini ne ricevono un danno enorme.”

***




I bimbi sono molto affettuosi, mi chiamano “hermano Hugo” e la mattina vengono incontro salutando con un singolo bacio sulla guancia (qui si usa così) oppure ti porgono la mano con un più serio “Buenos dias, hermano”.  Alcuni arrivano a riversare una straordinaria gioia sotto forma di un abbraccio e pian piano te ne devi tristemente staccare.
Si divertono molto e giocano nel cortile del comedor, dove c’è un castello di plastica e i bimbi ne entrano e ne escono con fragore. Giocano con dei palloni o con le loro macchinine. A volte giocano a nascondino dietro le porte della cucina e tu li devi guardare severamente e dir loro “Beh, che state facendo qui, tornate nel cortile”, allora se ne vanno ridendo e scambiando uno sguardo complice: dopo un minuto sono di nuovo dietro la porta. Giocano alla palla avvelenata e a volte li vedi tutti immobili e silenziosi, quasi come si fosse fermato il tempo. Qui a Caracoto è una sensazione comune.
Mentre i bimbi studiano nell’asilo o nella scuola, io cerco di dare una mano alle señoras della cucina, Olinda, Irma, Ilda e Rosa.



Di solito mi mettono ad asciugare le stoviglie, a tagliare o sbucciare verdure, a volte mi usano per finire dei lavori particolarmente noiosi o di cui si sono stufate: ad esempio, pulire i gusci delle cozze dallo sporco depositato sopra, oppure rivoltare la roba che sta friggendo.
Alle señoras de la cocina le chiamano tias (zie), probabilmente perché sono più anziane di me e hanno diritto a formule più educate. Sono delle donne robuste e molto gentili e piene di sorrisi. La señora Olinda sembra il capo, forse perché si occupa della cucina del piatto principale, parallelo alla sopa. Ha un viso giovane e lineamenti molto dolci: passa il tempo a prendersi gioco di me (me broma), che capisco poco lo spagnolo.
“Esta es la professora Eveline”, mi presenta alle persone e io sorrido e rispondo “Buenos dias! Mucho gusto!”. Poi quando la maestra s’è allontanata Olinda mi si avvicina e mi dice sottovoce “Ella tiene venticuatro años, como ti…” e ammicca con lo sguardo.
Altre volte mi fa ripetere delle parole che poi scopro essere delle mala parabras, e tutte le altre si distraggono dalle loro attività e ridono fino a spanciarsi. Dopo, piano piano, Rosa riprende a lavare i piatti, Irma a sbucciare le mele e Ilda a pulire i tavoli, e con calma mi spiegano l’errore. 
La señora Olinda e un prete amico di Manuel, Don Luis, sono gli unici che mi insegnano le parolacce.
Don Luis è un sacerdote argentino, detto El turco, per via delle origini arabe dei suoi discendenti. Non ha, in verità, dei lineamenti che ne ricordino la provenienza e d’altra parte lo chiamano turco anche se i suoi nonni erano libanesi. Ma qui se sei arabo ti chiamano turco. Don Luis ha una barba folta, ormai quasi completamente grigia e degli occhialetti rettangolari. Sulla testa tiene un berretto di lana, un po’ per il freddo e un po’ per coprire le calvizie. Ha l’aspetto del marinaio, seppur lontano dal giusto contesto. D’altra parte fa il prete, ma anche in questo ambiente sembra essere un pesce fuor d’acqua. Litiga spesso col vescovo (con tutti i vescovi, mi spiegava ridendo padre Manuel che gli vuole molto bene).
La prima volta che l’ho incontrato ha cominciato dicendo, “El obispo! La concha de su mama! Como se dice in italiano…” e aveva sistemato le mani come a contenere due invisibili noci di cocco e le agitava un po’ in alto e un po’ in basso. “No, no testìculos. Como dices por decir huevon?”, “Bien, sì, il vescovo è un coglione!” provava a dire in italiano, chiedendomi poi “Es correcto?”
  
***



A mezzogiorno i bimbi più piccoli cominciano a mangiare e io ho il compito di aiutarli a consumare tutto e di stimolarli un po’, quando sono troppo distratti o persi nel loro mondo di automobili e principesse.
Alcuni sono davvero molto piccoli e spesso non sono in grado di nutrirsi da soli; altri sono un po’ problematici e si fanno pregare. Il mio limitato vocabolario si è arricchito in questi giorni dei termini fondamentali per interagire coi bambini: come!, mastica!, passa la comida!, appurate!, e quelli a volte obbediscono, a volte chiudono il muso, e tu gli devi dire di aprire la bocca e forzare anche un po’ per combattere i loro capricci. A volte è un lavoro ingrato e non sembra giusto sgridare chi non riesce a mangiar tutto, però è anche molto importante che questo accada. Per i momenti difficili, sul finire del pranzo, arrivano le maestre più energiche, che partono con dei decisi “Come Valentinaaaa!” e quella obbedisce, suo malgrado.
Ci sono bambini che si servono già da adulti, attenti alla pulizia e l’igiene, e ci sono altri che invece si sporcano sempre, perché non guardano il cucchiaio, lo inclinano troppo, pensano di aver fretta di uscire per giocare.
Sebastian è un nino così, si sporca perché si distrae, sta sempre con gli  occhi chiusi e mezzo addormentato: sua madre lavora in un locale notturno a Juliaca e lo porta con se perché non ha a chi lasciarlo. Lui si gode la movida e di giorno dormicchia.
Poi c’è Valentina, che si giustifica sempre dicendo che lei non deve comer, che la madre non vuole, e ti fa dei discorsi lunghi con un incedere di “porque esto… porque l’otro…”, ma alla fine non è mai vero e mangia malvolentieri.
Ci sono i due che litigano sempre, Juan e Miguel, si fanno i dispetti l’un l’altro: la banana nella sopa, il cappello sotto i piedi, si tirano qualche schiaffo. La maestra comincia a gridare e questi si voltano avanti e guardano in basso, aspettando che la pressione dello sguardo esterno si faccia più blanda. A quel punto ricominciano.
Poi c’è Leo, che mangia lento, ma è un osservatore. Ha due occhi molto pieni e le pupille nere nere coprono tutto lo spazio che c’è. Ti guarda, ha ancora tutto nel piatto. Tu fai lo sguardo severo e fai finta di giudicarlo male. Lui però aggiunge uno sorriso agli occhi neri neri: a quel punto non puoi fare più niente.



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Di galli, di morte e di altre sciocchezze

Padre Manuel  era alla ricerca del suo Don Abbondio personale. Si trattava di organizzare la festa di un giovane prete che avrebbe celebrato la sua prima messa proprio a Caracoto, la domenica successiva: proprio nello spirito dell’avvenimento, Manuel  stava mettendo in avviso i conoscenti più stretti (il pretino era stato allievo del seminario di Juliaca) per invitarli alla ricorrenza. Era riuscito a chiamare tutti, meno un curato: “Non trovo il cura”, diceva con una costruzione quasi lombarda, ma con un accento fortunatamente diverso.


Lo aveva chiamato e aveva lasciato dei messaggi ai collaboratori più stretti, ma il cura non lasciava tracce di sé, né speranze per il futuro. Allora, nella migliore tradizione non biblica, padre Manuel aveva pensato di recarsi egli stesso alla montagna dove il cura era dimorato e noi di seguito per fare un gita.
La parrocchia del cura si trovava a Pukarà, una cittadina sessanta chilometri a nord di Juliaca. La strada per raggiungerla separava l’altipiano in due parti quasi uguali e solo a volte lasciava spazio a sporadici esempi di natura diversa dal deserto: qualche altura, un piccolo rio. Il resto, sepolto dal sole lungo del pomeriggio, erano sassi e sterpaglie secche per tutto il percorso.



Pukarà ci salutava già un po’ annoiati e accaldati, ma si presentava con una buona luce e dei buoni colori garantiti da una montagnola che proteggeva un lato del paese. Si stava facendo bella per l’inizio della sua festa, la stessa sera, con striscioni e bandiere, il pueblo era pulito e stava ancora nella fase della siesta più lenta: mentre ci avvicinavamo alla parrocchia, non pareva esserci anima viva.
Compreso il curato, naturalmente.



Padre Manuel nascondeva l’ennesima seccatura dietro alla solita apparenza bonaria: ci accompagnò sul costone dell’altura mostrandoci delle rovine di antiche popolazioni precedenti agli Inca (800-1000 d.C).
Si trattava di edifici abbastanza ben conservati (almeno nelle mura perimetrali) che stavano proprio sulla sommità di una imponente successione di vasche, una sotto l’altra, come una scala sulla discesa della montagnola. Le vasche raccoglievano l’acqua e la conservavano per le svariate esigenze. Ora non c’era più acqua ma queste erano riempite fino al culmine di terra e di prati.
Le rovine molto antiche mi trovano sempre in uno stato di ignorante passività, che lascia di solito la capacità di imparare e conoscere cose nuove, ma mi inibisce dal poter immaginare questi posti immobili come pullulanti di anime vive e attive. Questo mi capita nella maggior parte dei casi, ma stranamente quel pomeriggio le rovine morte erano piene di una vitalità inconsueta e ospitavano decine di mariachi  ballerini che suonavano e muovevano il corpo a tempo: giravano uno spot pubblicitario, ma a noi pareva ci accompagnassero vivacemente alla macchina.



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Sulla via del ritorno ci siamo fermati alla fiera d’inaugurazione della festa di Pukara.
Era una riunione di camion, moto, animali e venditori di tutto.
C’erano vacche ovunque e una, più fiera, portava al collo una coccarda rossa e bianca a testimonianza della superiore bellezza e formosità. Le altre meste e in fila cominciavano a riempire i vagoni dei camion da bestiame.
Vacche, pecore, asini e perfino qualche lama: mi pareva di percepire l’assenza di qualcuno e chiesi lumi a Manuel. “No, qui ci sono pochissimi cavalli, è un problema di comida scarsa, non c’è molto da mangiare”, mi rispose gentile, ma mentre lo diceva ci passava a fianco un camion che esibiva nitriti e crini sporgenti e a me parve il caso di guardare altrove.
Nelle vicinanze c’erano tiendas che vendevano formaggi della regione, di norma poco stagionati e molto morbidi, prendono la forma del pagliericcio che li contiene. I venditori della zona hanno prezzi diversi, a seconda che la tua pelle sia bianca o mulatta, e Padre Manuel manda sempre Johnny a comprare per risparmiarsi i tre soles di differenza.



Non c’era molta gente nelle tiendas perché un evento più grosso pareva aver conquistato l’attenzione di tutti, circa un centinaio di persone sistemate intorno ad un recinto da rodeo. Era in atto la lotta senza speranza tra due galli di combattimento e la gente osservava appassionata e a volte con un interesse anche personale: “Fanno combattere i galli per scommessa, è terribile”, commentava Manuel mentre io stavo osservando da lontano, sporgendo la testa per trovare uno spiraglio nella densità di persone accalcate.
“A Puño è peggio!”, continuava, “Là  c’è una festa ogni anno e fanno combattere un condor e un toro, io l’ho vista una volta, ma è terribile e lunghissima perché il toro non riesce a vedere il condor che lo aggredisce dall’alto e soffre molto. “
Il gallo rosso era più aggressivo e più cattivo del gallo giallo. Con violenza lo riempiva di beccate e quell’altro saltava come per una scossa forte e si stendeva da un lato, poi di nuovo veniva attaccato e di nuovo saltava e giaceva in attesa. Cinque o sei beccate forti e il gallo giallo era anche lui diventato rosso, e fu portato via nella gioia di chi lo aveva dato perdente. Il combattimento era finito e il vincitore si godeva la vittoria e veniva portato anche lui per il campo, questa volta in trionfo.
I polli non sono delle mascotte fortunate qui in Perù.
Il gallo peruviano è una bestia piena di grasso, ne è circondato per proteggersi dal freddo pungente, e per mezzo di esso genera sapori ricchi e peculiari quando viene cotto alla griglia. Per questa ragione i peruviani lo amano con ferocia e con un po’ di perversione. I polli vengono portati vivi nelle botteghe delle città e fin dalla mattina si assiste all’ufficio di un mattatoio pubblico, solo a volte velato da una tenda di tela. Il pollo è più buono appena ucciso e questo basta a giustificare il sadismo dei pollicidi: lo strozzano,lo spiumano e lo pelano appena morto, e dopo pochi secondi nell’acqua bollente viene messo su un tavolo e la testa gli vola via, mozzata ma già esangue. Sullo stesso tavolo un guanto bianco gli cava via delle viscere dall’interno e lo passa, così, pulito, alla ragazza del bancone, che lo espone tra gli altri polli e comincia a gridare “Pollo fresco! Pollo!”.
Sulla strada una señora sta camminando e forse cerca il suo mezzo pollo per il pranzo, si volta, si ferma e lo compra. E a quel punto il colpo è netto e il pollo è già la sua metà.



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