Domande esistenziali
Il Comedor Estudiantil “Giordano Liva” è un edificio celeste in mezzo a
case rurali e spartane che non sentono il bisogno di coprire la propria
costituzione con strati di vernice. Il celeste è un colore gioioso e può servire
a riempire d’ottimismo chiunque si venga a trovare in questa zona. Oltre alla
mensa, che è l’originale ragione del comedor,
la struttura ospita il jardin, cioè
l’asilo. La scuola elementare è stata istituita da poco e si trova in un palazzo
diverso, ma molto vicino e sempre celeste.
Il sistema educativo peruviano è
composto da tre livelli: una escuela
inicial (dai 3 ai 5 anni), una escuela
primaria (dai 6 agli 11 anni) e una escuela
secondaria (dai 12 ai 17 anni). Il
sistema di educazione pubblica è gratuito, ma qui nella regione di Puño
si sistema ad un livello molto basso di professionalità e preparazione. “I
professori del Colegio Nacional sono
i miei peggiori nemici”, mi ha detto Manuel appena sono arrivato, “questi sono
ignorantissimi, vanno a lezione ubriachi e quando sono sobri escono ad ubriacarsi
con i loro studenti. Mi fa una rabbia…”
Tutti gli studenti peruviani (di
qualunque ordine, grado e accessibilità) possiedono una uniforme generalmente
costituita da un maglione intestato (a volte con cravatta) e un paio di
pantaloni o una gonna. Da un certo punto di vista questa sembra la stessa
procedura di avere tanta polvere in casa e coprirla con un tappeto persiano.
Anche i bimbi del comedor estudiantil hanno una graziosa divisa grigia e blu, con un sombrero da pescatore contro gli effetti
del sole. Si tratta di un centinaio di bambini (compresi i ragazzi della
primaria) che ogni giorno arrivano da diverse parti della zona per ricevere colazione,
istruzione e pranzo. La mensa, però, dà da mangiare a molti altri: ci sono i
bimbi del pueblo e gli stessi ragazzi
del colejo nacional e si arriva a
quasi centottanta bocche da sfamare ogni giorno.
Il pranzo e la colazione costano
ai bimbi nove soles alla settimana
(circa quaranta al mese) ed è un prezzo molto basso anche per queste zone, dove una porzione di
pollo alla griglia, il piatto popolare peruviano, costa circa otto soles.
“A volte, in situazioni
particolari, alcuni bambini vengono esentati dal pagare”, mi spiegava Vicky,
“Cerchiamo di capire chi può averne davvero bisogno e a volte per mezzo di
amici di Manuel, a volte con i fondi del comedor
stesso, si cerca di sollevarli dalle spese o di ridurgliele. Però non sempre questo
modo di fare è opportuno: abbiamo verificato che se un ragazzo ha la
possibilità di mangiare gratis, allora capita spesso che decida di non venire,
perché tanto non perde nulla e magari i genitori non lo accompagnano o ne
pretendono l’aiuto nei campi.
Nel jardin abbiamo solo cinque bambini che pro vengono dai campi:
spesso è un problema di mobilità perché le strade non esistono e non c’è un
servizio di trasporto che sia in grado di raggiungere tutte le zone vicine. I campesinos, d’altra parte non
considerano molto importante l’istruzione, anzi la vedono come un’occasione di
ritardo che leva loro la possibilità di sfruttare le braccia dei figli per il
lavoro nei campi. Il problema è che a volte sono sfacciati e pretendono il
pasto gratuito giustificandolo con lo stato di povertà, ma contemporaneamente spendono
denaro per comprare la cerveza che li
ubriaca ogni fine settimana. Preferiscono una cassa di cerveza in più all’educazione del figlio.”
Nelle ultime settimane la mensa
non funziona a regime: i professori delle scuole statali sono in sciopero
indefinito da due mesi e i bambini che le frequentano stanno a casa o nei campi
e non vengono a mangiare.
“E’ una situazione molto
difficile e il peggio è che non se ne vede un’uscita. Lo sciopero è indefinito
e non sappiamo quando potrà finire. I bambini ne ricevono un danno enorme.”
***
I bimbi sono molto affettuosi, mi
chiamano “hermano Hugo” e la mattina vengono incontro salutando con un singolo
bacio sulla guancia (qui si usa così) oppure ti porgono la mano con un più
serio “Buenos dias, hermano”. Alcuni
arrivano a riversare una straordinaria gioia sotto forma di un abbraccio e pian
piano te ne devi tristemente staccare.
Si divertono molto e giocano nel
cortile del comedor, dove c’è un
castello di plastica e i bimbi ne entrano e ne escono con fragore. Giocano con
dei palloni o con le loro macchinine. A volte giocano a nascondino dietro le
porte della cucina e tu li devi guardare severamente e dir loro “Beh, che state
facendo qui, tornate nel cortile”, allora se ne vanno ridendo e scambiando uno
sguardo complice: dopo un minuto sono di nuovo dietro la porta. Giocano alla
palla avvelenata e a volte li vedi tutti immobili e silenziosi, quasi come si
fosse fermato il tempo. Qui a Caracoto è una sensazione comune.
Mentre i bimbi studiano
nell’asilo o nella scuola, io cerco di dare una mano alle señoras della cucina, Olinda,
Irma, Ilda e Rosa.
Di solito mi mettono ad asciugare
le stoviglie, a tagliare o sbucciare verdure, a volte mi usano per finire dei
lavori particolarmente noiosi o di cui si sono stufate: ad esempio, pulire i
gusci delle cozze dallo sporco depositato sopra, oppure rivoltare la roba che sta
friggendo.
Alle señoras de la cocina le
chiamano tias (zie), probabilmente perché
sono più anziane di me e hanno diritto a formule più educate. Sono delle donne
robuste e molto gentili e piene di sorrisi. La señora Olinda sembra il capo,
forse perché si occupa della cucina del piatto principale, parallelo alla sopa. Ha un viso giovane e lineamenti molto
dolci: passa il tempo a prendersi gioco di me (me broma), che capisco
poco lo spagnolo.
“Esta es la professora Eveline”,
mi presenta alle persone e io sorrido e rispondo “Buenos dias! Mucho gusto!”.
Poi quando la maestra s’è allontanata Olinda mi si avvicina e mi dice sottovoce
“Ella tiene venticuatro años, como ti…” e ammicca con lo sguardo.
Altre volte mi fa ripetere delle
parole che poi scopro essere delle mala
parabras, e tutte le altre si distraggono dalle loro attività e ridono fino
a spanciarsi. Dopo, piano piano, Rosa riprende a lavare i piatti, Irma a
sbucciare le mele e Ilda a pulire i tavoli, e con calma mi spiegano
l’errore.
La señora
Olinda e un prete amico di Manuel, Don Luis, sono gli unici che mi insegnano le
parolacce.
Don Luis è
un sacerdote argentino, detto El turco,
per via delle origini arabe dei suoi discendenti. Non ha, in verità, dei
lineamenti che ne ricordino la provenienza e d’altra parte lo chiamano turco anche se i suoi nonni erano
libanesi. Ma qui se sei arabo ti chiamano turco.
Don Luis ha una barba folta, ormai quasi completamente grigia e degli
occhialetti rettangolari. Sulla testa tiene un berretto di lana, un po’ per il
freddo e un po’ per coprire le calvizie. Ha l’aspetto del marinaio, seppur
lontano dal giusto contesto. D’altra parte fa il prete, ma anche in questo
ambiente sembra essere un pesce fuor d’acqua. Litiga spesso col vescovo (con
tutti i vescovi, mi spiegava ridendo padre Manuel che gli vuole molto bene).
La prima
volta che l’ho incontrato ha cominciato dicendo, “El obispo! La concha de su mama!
Como se dice in italiano…” e aveva sistemato le mani come a contenere due
invisibili noci di cocco e le agitava un po’ in alto e un po’ in basso. “No, no
testìculos. Como dices por decir huevon?”, “Bien, sì, il vescovo è un coglione!”
provava a dire in italiano, chiedendomi poi “Es correcto?”
***
A mezzogiorno i bimbi più piccoli
cominciano a mangiare e io ho il compito di aiutarli a consumare tutto e di stimolarli
un po’, quando sono troppo distratti o persi nel loro mondo di automobili e principesse.
Alcuni sono davvero molto piccoli
e spesso non sono in grado di nutrirsi da soli; altri sono un po’ problematici
e si fanno pregare. Il mio limitato vocabolario si è arricchito in questi
giorni dei termini fondamentali per interagire coi bambini: come!, mastica!, passa la comida!,
appurate!, e quelli a volte
obbediscono, a volte chiudono il muso, e tu gli devi dire di aprire la bocca e
forzare anche un po’ per combattere i loro capricci. A volte è un lavoro ingrato
e non sembra giusto sgridare chi non riesce a mangiar tutto, però è anche molto
importante che questo accada. Per i momenti difficili, sul finire del pranzo,
arrivano le maestre più energiche, che partono con dei decisi “Come Valentinaaaa!” e quella obbedisce,
suo malgrado.
Ci sono bambini che si servono
già da adulti, attenti alla pulizia e l’igiene, e ci sono altri che invece si
sporcano sempre, perché non guardano il cucchiaio, lo inclinano troppo, pensano
di aver fretta di uscire per giocare.
Sebastian è un nino così, si sporca perché si distrae,
sta sempre con gli occhi chiusi e mezzo
addormentato: sua madre lavora in un locale notturno a Juliaca e lo porta con
se perché non ha a chi lasciarlo. Lui si gode la movida e di giorno dormicchia.
Poi c’è Valentina, che si
giustifica sempre dicendo che lei non deve comer,
che la madre non vuole, e ti fa dei discorsi lunghi con un incedere di “porque esto… porque l’otro…”, ma alla
fine non è mai vero e mangia malvolentieri.
Ci sono i due che litigano
sempre, Juan e Miguel, si fanno i dispetti l’un l’altro: la banana nella sopa, il cappello sotto i piedi, si
tirano qualche schiaffo. La maestra comincia a gridare e questi si voltano
avanti e guardano in basso, aspettando che la pressione dello sguardo esterno
si faccia più blanda. A quel punto ricominciano.
Poi c’è Leo, che mangia lento, ma
è un osservatore. Ha due occhi molto pieni e le pupille nere nere coprono tutto
lo spazio che c’è. Ti guarda, ha ancora tutto nel piatto. Tu fai lo sguardo
severo e fai finta di giudicarlo male. Lui però aggiunge uno sorriso agli occhi
neri neri: a quel punto non puoi fare più niente.
***
Di galli, di morte e di altre sciocchezze
Padre Manuel era alla ricerca del suo Don Abbondio personale. Si trattava di organizzare la festa di un
giovane prete che avrebbe celebrato la sua prima messa proprio a Caracoto, la
domenica successiva: proprio nello spirito dell’avvenimento, Manuel stava mettendo in avviso i conoscenti più
stretti (il pretino era stato allievo del seminario di Juliaca) per invitarli
alla ricorrenza. Era riuscito a chiamare tutti, meno un curato: “Non trovo il cura”, diceva con una costruzione quasi
lombarda, ma con un accento fortunatamente diverso.
La parrocchia del cura si trovava a Pukarà, una cittadina
sessanta chilometri a nord di Juliaca. La strada per raggiungerla separava
l’altipiano in due parti quasi uguali e solo a volte lasciava spazio a
sporadici esempi di natura diversa dal deserto: qualche altura, un piccolo rio.
Il resto, sepolto dal sole lungo del pomeriggio, erano sassi e sterpaglie
secche per tutto il percorso.
Pukarà ci salutava già un po’
annoiati e accaldati, ma si presentava con una buona luce e dei buoni colori garantiti
da una montagnola che proteggeva un lato del paese. Si stava facendo bella per
l’inizio della sua festa, la stessa sera, con striscioni e bandiere, il pueblo era pulito e stava ancora nella
fase della siesta più lenta: mentre ci avvicinavamo alla parrocchia, non pareva
esserci anima viva.
Compreso il curato, naturalmente.
Padre Manuel nascondeva
l’ennesima seccatura dietro alla solita apparenza bonaria: ci accompagnò sul
costone dell’altura mostrandoci delle rovine di antiche popolazioni precedenti
agli Inca (800-1000 d.C).
Si trattava di edifici abbastanza
ben conservati (almeno nelle mura perimetrali) che stavano proprio sulla
sommità di una imponente successione di vasche, una sotto l’altra, come una
scala sulla discesa della montagnola. Le vasche raccoglievano l’acqua e la
conservavano per le svariate esigenze. Ora non c’era più acqua ma queste erano
riempite fino al culmine di terra e di prati.
Le rovine molto antiche mi
trovano sempre in uno stato di ignorante passività, che lascia di solito la
capacità di imparare e conoscere cose nuove, ma mi inibisce dal poter
immaginare questi posti immobili come pullulanti di anime vive e attive. Questo
mi capita nella maggior parte dei casi, ma stranamente quel pomeriggio le
rovine morte erano piene di una vitalità inconsueta e ospitavano decine di mariachi ballerini che suonavano e muovevano il corpo a
tempo: giravano uno spot pubblicitario, ma a noi pareva ci accompagnassero vivacemente
alla macchina.
***
Sulla via del ritorno ci siamo
fermati alla fiera d’inaugurazione della festa di Pukara.
Era una riunione di camion, moto,
animali e venditori di tutto.
C’erano vacche ovunque e una, più
fiera, portava al collo una coccarda rossa e bianca a testimonianza della
superiore bellezza e formosità. Le altre meste e in fila cominciavano a riempire
i vagoni dei camion da bestiame.
Vacche, pecore, asini e perfino
qualche lama: mi pareva di percepire l’assenza di qualcuno e chiesi lumi a
Manuel. “No, qui ci sono pochissimi cavalli, è un problema di comida scarsa, non c’è molto da mangiare”,
mi rispose gentile, ma mentre lo diceva ci passava a fianco un camion che
esibiva nitriti e crini sporgenti e a me parve il caso di guardare altrove.
Nelle vicinanze c’erano tiendas che vendevano formaggi della
regione, di norma poco stagionati e molto morbidi, prendono la forma del
pagliericcio che li contiene. I venditori della zona hanno prezzi diversi, a
seconda che la tua pelle sia bianca o mulatta, e Padre Manuel manda sempre Johnny
a comprare per risparmiarsi i tre soles di differenza.
Non c’era molta gente nelle tiendas perché un evento più grosso
pareva aver conquistato l’attenzione di tutti, circa un centinaio di persone
sistemate intorno ad un recinto da rodeo. Era in atto la lotta senza speranza
tra due galli di combattimento e la gente osservava appassionata e a volte con
un interesse anche personale: “Fanno combattere i galli per scommessa, è
terribile”, commentava Manuel mentre io stavo osservando da lontano, sporgendo la
testa per trovare uno spiraglio nella densità di persone accalcate.
“A Puño è peggio!”, continuava,
“Là c’è una festa ogni anno e fanno
combattere un condor e un toro, io l’ho vista una volta, ma è terribile e
lunghissima perché il toro non riesce a vedere il condor che lo aggredisce
dall’alto e soffre molto. “
Il gallo rosso era più aggressivo
e più cattivo del gallo giallo. Con violenza lo riempiva di beccate e
quell’altro saltava come per una scossa forte e si stendeva da un lato, poi di
nuovo veniva attaccato e di nuovo saltava e giaceva in attesa. Cinque o sei
beccate forti e il gallo giallo era anche lui diventato rosso, e fu portato via
nella gioia di chi lo aveva dato perdente. Il combattimento era finito e il
vincitore si godeva la vittoria e veniva portato anche lui per il campo, questa
volta in trionfo.
I polli non sono delle mascotte fortunate
qui in Perù.
Il gallo peruviano è una bestia
piena di grasso, ne è circondato per proteggersi dal freddo pungente, e per
mezzo di esso genera sapori ricchi e peculiari quando viene cotto alla griglia.
Per questa ragione i peruviani lo amano con ferocia e con un po’ di
perversione. I polli vengono portati vivi nelle botteghe delle città e fin
dalla mattina si assiste all’ufficio di un mattatoio pubblico, solo a volte
velato da una tenda di tela. Il pollo è più buono appena ucciso e questo basta
a giustificare il sadismo dei pollicidi: lo strozzano,lo spiumano e lo pelano
appena morto, e dopo pochi secondi nell’acqua bollente viene messo su un tavolo
e la testa gli vola via, mozzata ma già esangue. Sullo stesso tavolo un guanto
bianco gli cava via delle viscere dall’interno e lo passa, così, pulito, alla
ragazza del bancone, che lo espone tra gli altri polli e comincia a gridare
“Pollo fresco! Pollo!”.
Sulla strada una señora
sta camminando e forse cerca il suo mezzo pollo per il pranzo, si volta, si
ferma e lo compra. E a quel punto il colpo è netto e il pollo è già la sua metà.
***
Mi sa che in Perù tu sia bello alto :) ...
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