mercoledì 4 luglio 2012

Tercero


Amores perros


  
Anche stanotte i cani del paese hanno gridato la loro esistenza. Tutte le notti, questa successione di latrati che non paiono avere scopo riempie di vita un paese già a letto a combattere il freddo.
Anche i cani hanno freddo, si riparano negli ingressi nascosti di edifici rovinati e camminano senza pause per trovare sostentamento. Trascinano, più che per un semplice passeggiare, i corpi smunti dalla fame e col pelo castano disordinato. Sono dieci, forse quindici cani diversi e indistinguibili; sono cani senza futuro e senza padrone, o forse hanno innumerevoli padroni, che a turno distribuiscono loro un po’ di cibo sotto forma di avanzi e ne ritardano la fine.
Il cane di padre Manuel soffre molto, forse ha la rabbia. Ieri lo han portato dal veterinario in città e ha cominciato una cura di iniezioni, ma non ho capito bene quale male lo tormenti di preciso. Questo scodinzola mestamente e tiene un occhio socchiuso e umido di lacrime involontarie.
I cani non piangono, credo. Qui, sembrano piuttosto consapevoli della necessaria condizione dell’animale in un posto povero, quella di rimanere solo una bestia senza nome. E così abbaiano forte e si mostrano violenti, quando inseguono le macchine, quando si attaccano tra di loro e quando si accoppiano.
La notte, con violenza, gridano e a me sembra di non dormirne.

***

L’itagnolo
Riporto una conversazione avvenuta a tavola, in parrocchia, che testimonia il mio conflittuale rapporto con la lingua spagnola.


“Como se llama la vaca en Italia?”, mi diceva Leo, la ragazza che cucina i pasti nella parrocchia.
“Se gliama mucca o vacca”, dicevo io.
“Y como se llama el su hijo?”
“Se gliama vitellino”, non mi veniva in mente altro. Poi ancora io:  “Ma el hombre della bvaca, como se disce…”
“El macho” faceva lei
“Ah, sì, el macho, ye como se disce para la femena…la mujera…”
“La hembra” ancora lei, paziente.
“Ah, bien! Alora… entonses cioè, el macho della bvaca, in Italia, se gliama bue, ma està el mas nigro con les, como se gliaman estos?” chiedevo facendomi spuntare due lunghe corna da dietro la testa.
“ Cuernas?”
“Ah sì, sì”, rispondevo convinto (rispondevo sempre convinto, poi da dove potessi trarre tutta questa sicurezza rimane un mistero). E continuavo: “Esto animalo con les cuernas se gliama toro, ès mas grande ye escuro, se disce?”
“El toro! El macho de la vaca…” fa lei.
“Si ma es differente porque està el bue ye iel toro.” Avevo già in testa di parlare del bue e dell’asino della grotta di Natale quando all’improvviso mi è passata per la testa quella che pensavo fosse un’illuminazione: “Iel toro es l’animalo que hace las corridas”
Attimi di incomprensione. Ma corrida non era una parola spagnola?
“La corridas, como se disce…es la manifestacion in espagna donde…” e allora stavo cominciando a sventolare un invisibile strofinaccio rosso, a prendere in giro il mio toro immaginario (anche nell’immaginazione, comunque, ne venivo trafitto)
“Ah… el corrìo de los toros!” urlava lei.
Molto felice del risultato raggiunto, proseguivo felice e spensierato nel mio discorso, facendo riferimento alla “discussion che està porque es una question disumana, se disce disumana?”, “Como porque es disumana?”, “Sì, està la hhiente che le gusta mucho,ma estan alquellos que creono (creono?) que es disumano matar los toros”, “mi parìa que esta una manifestacion a Pamplona donde los toros corron nellas pistas de la ciudad”, “Sì, non nell’estadio, ma nellas pista e…como se puede dir... Antes los toros està la hhiente que corre e detras los toros”, “A Pamplona, sì, assì mi parìa”.
“Es una cosa stupida” concludevo. “Se disce stupido?”


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Los mineros

Anche questo appena trascorso è stato un martedì di sciopero (paro) nella regione di Puño.
“Scioperano i minatori”, mi spiegava Manuel qualche giorno fa. “Sono minatori che lavorano molto lontano da qui, a dieci o dodici ore. Una buona parte degli uomini di queste zone è composta da minatori: per la gente poverissima il lavoro in miniera è un’opportunità di cambiamento; si tratta ovviamente di lavoro senza diritti, una terribile speculazione, però la speranza di guadagno mette a tacere ogni possibile riserva.”


L’accordo funziona pressappoco così: nei giorni feriali i minatori lavorano gratuitamente per i padroni dei giacimenti (generalmente imprese multinazionali); il sabato e la domenica, invece, la miniera rimane a disposizione dei lavoratori che possono trattenere tutto quanto riescono a recuperare (sono chiamati mineros informales). “Non si tratta ovviamente di  grossi valori: nella maggior parte dei casi si parla di poche decine di grammi di oro, ma converrai che sono uomini che vivono di nulla, per loro è comunque un passo avanti: pensa che, molto spesso, gli uomini appena sposati partono proprio per lavorare in miniera e per tre o quattro anni si trovano lontano da casa, dalla moglie, dai figli.
E’ un fenomeno molto triste e negli ultimi anni ha provocato delle discussioni enormi all’interno dell’opinione pubblica: non è una questione di moralità o equità delle opportunità; si tratta di discorsi che riguardano l’ambiente e la salute degli abitanti delle zone coinvolte. Vedi, quello che i minatori portano via con sé è materiale non trattato: è vero, ho detto che riescono a tenere cento grammi d’oro, ma insieme a quantità di materiali velenosissimi come mercurio, cadmio o arsenico. E’ un gigantesco pericolo per la salute degli uomini, ma anche un ostacolo al settore agricolo: l’acqua avvelenata diventa inutilizzabile per le colture e in posti secchi come questi, la mancanza di acqua è come la morte.”



E’ diventata una situazione molto complicata: il governo mostra continui segni di incoerenza e debolezza, mentre la popolazione civile è preoccupatissima per le conseguenze di scelte politiche assurde, come questa liberalizzazione delle miniere. Naturalmente le scelte del governo sono condizionate dagli interessi delle multinazionali coinvolte: “il Perù è in fondo un paese debole e soggetto ai poteri più forti di nazioni straniere più ricche. Pensa che nell’ultima campagna elettorale il candidato (ora presidente) aveva promesso di fermare questo saccheggio di risorse naturali, il patrimonio del Perù. E cosa è successo? Qualche mese dopo ha invertito completamente la strategia, sostenendo le imprese minerarie e opponendosi anche con violenza alle proteste. Ad oggi, si contano decine di morti a seguito degli scontri con la polizia: sono meccanismi di violenza incontrollata: la popolazione sciopera e blocca la vita delle città, la polizia spesso riesce a provocare parte dei manifestanti spingendoli ad una guerriglia a base di sassi, lacrimogeni e colpi di pistole; la sopravvivenza diventa una casualità.”
Oggi scioperano i minatori informali, perché il governo sembra aver nuovamente cambiato direzione alla propria politica, cercando di regolamentare gli scavi e il commercio d’oro: bloccano gli accessi e le uscite delle città; qui a Juliaca occupano l’unica strada all’altezza dell’università. Spargono sassi e vetri sull’asfalto e non lasciano possibilità di passaggio ai veicoli: chi vuole passa a piedi e cammina per chilometri.
“Se provi a parlare con i minatori non riesci a far capire loro il problema ambientale: la salute, gli avvelenamenti non sono interessi primari, sembra che non riguardino la loro vita. Non capiscono che quello che mangiano può essere contaminato, che l’acqua che arriva nelle case è contaminata; addirittura il pesce del lago è contaminato!
Ti assicuro che non è una situazione semplice da risolvere, e la comunità internazionale, come sempre, se ne lava le mani…”



Lo sciopero blocca la circolazione e crea disagi tipici, ritardi e malfunzionamenti delle attività. Nel piccolo ambiente del Comedor, questo si misura in assenze di studenti e difficoltà a garantire un servizio efficiente. I bambini che vengono dalla città, così come i professori,  sono soggetti alle fluttuazioni della mobilità, e devono superare il blocco a piedi e aspettare e sperare in una corriera.
Ieri la Toyota di Padre Manuel ha fatto le veci di scuolabus andando fino al blocco dei manifestanti per recuperare bimbi e direttrice. In lontananza, nubi di polvere da movimento confuso e per terra sassi voluminosi. Accanto alla strada una marcia interminabile di persone, verso l’università o altre mete più lontane, per fare in modo che la vita non si fermi e tutto funzioni normalmente, anche se in un clima non reale.
Alle otto e mezza il fuoristrada aveva caricato tutti e ripartiva spedito alla volta di Caracoto: tra sedili e portapacchi, circondati da zaini e borse, eravamo in quattordici.

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Sillustani

Il ventinove giugno è la festa di San Pedro y Pablo, un giorno feriado, cioè non lavorativo in tutto il Sud America, oltre che a Roma. Padre Manuel è andato a Lima per una settimana e io ho avuto maggiori occasioni di frequentare altre persone qui a Caracoto.



Johnny è uno studente peruviano che dorme nella foresteria del Comedor (dove vivo anche io) e fa un po’ da custode della struttura. Ha ventiquattro anni, una pelle che pare già segnata dal sole molto forte (Johnny non porta mai un cappello) e un colorito piuttosto scuro accompagnato da nerissimi capelli corti sistemati con una frangia sulla fronte. L’abitudine e la tempra lo fanno muovere con solo una maglietta e una felpa di pile. Come molti altri studenti di qui, veste molto all’occidentale, indossando un immancabile paio di jeans. Johnny studia all’Universidad Andina, vicino a Juliaca. Il direttore della scuola elementare, Hector, mi ha spiegato che si tratta di una istituzione privata e non statale, ma con delle tasse abbastanza basse (circa duecento soles al mese) da riuscire ad attirare quasi ventimila studenti ogni anno. Il complesso universitario è abbastanza grande e atipico, con sei o sette costruzioni abbastanza alte e molto moderne che ospitano le varie facoltà: sono per la maggior parte lauree professionalizzanti, ingegneria, economia, scienze dell’educazione, diritto, medicina. Altre discipline più astratte, che pure esistono, sono nascoste in qualcuno di questi edifici, ma non ne traspare alcuna evidenza perché la necessità principale di questa regione sembra essere quella di colmare una deficienza di professionisti specializzati.



Johnny studia Ingegneria Meccanica-Elettrica, come la chiamano qui. Contemporaneamente lavora in un’officina (“Esto es el lugar donde trabajo”, mi indicava un giorno mentre eravamo a Juliaca) per poter pagare i suoi studi.
“Dopo la laurea cercherò un altro lavoro”, mi ha detto una sera, “forse mi sposterò al nord, nella Sierra Madre, io vorrei… proverei… vedremo…”
La faccia è spesso accigliata e pensierosa, come se dovesse dare conto di molte azioni e comportamenti. Sembra portare sulle spalle il peso di doveri più importanti e più vecchi di lui, compresa la responsabilità più grande di tutte.
Leo e Johnny hanno una bellissima figlia di quattro anni, Natalie, a cui non piace mangiare (comer), ma che è molto simpatica.

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Il venerdì di San Pedro y Pablo, allora, Johnny si è offerto di farmi fare una piccola gita nelle vicinanze. Dopo il pranzo in un ristorante cinese a Juliaca, siamo partiti verso sud, imboccando la strada che porta a Puño. Ci muovevamo con l’auto di Padre Manuel, lasciata a disposizione di chi ne aveva bisogno.
La prima tappa prevista era una festicciola di un amico di Johnny, Luis. Questa era in programma sulla sommità di un’altura in mezzo ai campi, una località di nome Atuncola, a quindici chilometri da Juliaca.
Si trattava di una festa di famiglia mi spiegavano mentre, abbastanza incuriosito, mi ero messo a contare la cinquantina di persone che si stava allegramente spingendo verso l’euforia.



L’organizzazione, quello che più mi stupiva, era già ben collaudata: un’orchestra vestita d’azul e un sacco di piccole scatole di polistirolo da distribuire ad ogni invitato che contenevano il pranzo (un pezzo di carne alla brace e numerose varietà di patate peruviane) con annesse posate. Naturalmente gioia e litri di cerveza salivano le stesse pendici, con lo stesso passo lento delle donne che si offrivano di portarne su dalla valle.
E’ stata la mia prima cerveza in terra peruviana, ma c’era un sole assassino e non ne ho goduto appieno.




Abbiamo salutato Luis dopo un paio d’ore, questa volta diretti verso il bacino del lago Umayo, a trentaquattro chilometri da Puño. Nella penisola del bacino esistono delle tracce della civiltà Inca, nella necropoli di Sillustani (1200-1400 d.C.). Le sepolture sono delle costruzioni particolari come delle specie di nuraghi, dei torrioni in prevalenza circolari di pietra levigata, chiamati Chullpass.



Il sole al tramonto regalava dei colori speciali ad un paesaggio che si riempiva di isola, di torri e di lago. Ogni tanto comparivano i primi lama, creature vanitose che si mettono in posa ad ogni scatto.
Quel venerdì ho incontrato il mio primo lama, mi guardava e non mi ha sputato.



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4 commenti:

  1. Beh, sarei curiosa di sapere quanti tipi di patate esistano in Perù :) e cmq vorrei aggiungere che san Pietro e san Paolo si festeggia in Perù, nella città del Vaticano e...in Ticino :/ quando ho trovato la biblioteca chiusa e mi son chiesta perché?!!! Pietro? Paolo? festa???
    baci!

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  2. In Perù esistono più di 150 tipi di patate diverse, mi hanno detto; io ne ho assaggiate finora una decina. Devo dire che non mi piacciono tutte. Alcune, si chiamano Chunios, sono patate lasciate gelare (proprio in questo periodo): quando le mangi hanno il colore del ghiaccio e hanno un sapore inesistente: come mangiar neve...

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  3. Gnammm le patate dolci!
    Hugo comunque stai attento ai lama, se sono simili ai guanacos anche nel comportamento sputano quando meno te l'aspetti!

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  4. Io se fossi un lama approfitterei della mia nomea per una sputazzata gratis!

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