martedì 10 luglio 2012

Cuarto


Napoleone in Russia



A Caracoto fa un freddo porco.
Di notte la temperatura scende sotto lo zero, meno dieci, anche meno diciotto. Padre Manuel una volta mi raccontava che il sabato prima della festa di San Giovanni è la notte più fredda dell’anno. Purtroppo, alla mia età, non credo più alle leggende o alle superstizioni* e sono costretto a dialogare con ciò che la realtà  mi presenta.
In questi giorni c’è un freddo ben peggiore del sabato di San Giovanni e tutto il tempo trascorre con la giacca addosso. Fuori o dentro, in realtà è lo stesso: le case sono costituite da sottili muri di mattone e creta e le finestre sono delle sagome intagliate nel loro stesso sostegno di vetro, lasciando ampie possibilità alla traspirazione delle stanze. Non esistono le forme di riscaldamento automatico (calefaccion) e l’acqua calda proviene da un piccolo silos messo sul tetto delle case, ma d’inverno è sempre fredda e allora per lavarsi si sfruttano delle resistenze elettriche nei doccini.
Dopo il tramonto la temperatura cala all’improvviso e il comedor diventa un posto difficile da abitare ed è opportuno cercare scappatoie: la casa di Padre Manuel ad esempio, con il camino e una preziosa stufa a gas, diventa un rifugio solidale e fortunato dove trascorrere l’attesa delle ore notturne e la cena.  
Di notte, si trova un piccolo spazio vitale sotto il peso di cinque o sei coperte e con un berretto di lana in capo finalmente si può dormire.
Il sole è una benedizione quasi quotidiana e solo rare volte il cielo si è coperto di nuvole. Un cielo grigio in un altipiano è più minaccioso che in altri scenari, sarà una questione di colori oppure  del tormentato rapporto che ci lega a ciò che pare non avere una fine.


Quando c’è il sole però si è contenti; gli angoli bagnati dalla luce sono piccoli tesori di cui cibarsi con avidità. Molto spesso ci sono dieci gradi di differenza tra le zone illuminate e le parti in ombra e ci si trova a camminare su piste accecanti con la faccia che si rivolge là dove può prendere vita.
In un posto così particolare i momenti della giornata sono scanditi dalla presenza della luce e ci si alza all’alba, con il canto del gallo. Sotto le coperte non fa freddo, ma il risveglio è una successione di movimenti studiati per non disperdere calore, per non subire traumatici brividi. Uno dei riti quotidiani è la colazione (desajuno) al comedor: qui si mangiano panini ripieni (patè di fegato,uovo, carne o marmellata a seconda dei giorni) che si accompagnano con una copa di mate o di latte e maizena (o avena). E’ un momento importante, in cui ogni difficoltà diviene più leggera, e ci si sazia di un primo momento di insperato calore.
Dopo si sta un po’ al sole..

*Mi hanno raccontato, ad esempio, che a Machu Picchu esistono delle pietre speciali,al cui contatto si può trarre una forma di energia unica, preziosa e millenaria. Sono curioso, presto mi informerò meglio a riguardo.

***



Durante queste mattine, si chiacchiera molto con il direttore della scuola elementare, Hector, e con uno dei maestri, Edwin. “Buenos dias! Que tal?” o “Hola! Que tal?” mi dicono spesso: sono i saluti più diffusi nel sud del Perù. A volte si sente un rivoluzionario “Buen dìa”, e a me viene da pensare a Macondo, che esista davvero e che si trovi dove mi trovo anche io, ma qui, del colonnello Aureliano, ancora non c’è traccia.
In piedi, Hector e Edwin aspettano l’arrivo di tutti i bambini, per poter andare poi nella scuola, che sta in un altro edificio. Nel frattempo si riscaldano e conversano con me, con pazienza e con chiunque altro capiti a tiro.
Chi passa per la strada saluta con cordialità e sorride. Nella maggior parte dei casi sono sorrisi rovinati da denti falsi o guasti, ma gli occhi sono spesso molto belli e la gentilezza si trasmette anche attraverso di quelli.
Gli occhi del Señor Saphroner che ci salutava una mattina erano di un colore metallico, tra il grigio e il blu. “Buenos dias!”, diceva con timidezza. Il tipico colorito mulatto della faccia era incorniciato da una barbetta bianca un po’ rada mentre, nella parte alta, teneva un cappello americano per riparare dal sole i solchi profondi della fronte.
Non capivo molto bene cosa dicesse, ma sentivo che parlava di un hermano, dell’Italia e del trabajo. “Tiene un hermano in Italia”, mi ha riferito Edwin vedendo la mia espressione un po’ distratta. “Da venti años!”, aveva continuato, sembrava divertito.



“Donde està in Italia?”  avevo chiesto, ma quello un po’ spaventato si girava intorno, prima a destra e poi a sinistra. Non sapeva, non ricordava?
“Mi papas tambien eran italianos”, aveva aggiunto per cambiare discorso, ma nel frattempo aveva anche ritrovato un nome per rispondere alla domanda di prima: “A Genova! Por el trabajo… in Perù poco trabajo”
Edwin continuava a sorridere e chiedeva da quanto tempo non lo vedesse.
“Venti años, sì, venti años” diceva un po’ sconsolato, e poi continuando “sì, l’he visto l’año pasado, no…hora son dos años!”
Il mio spagnolo incerto non poteva darmi sicurezza nelle contraddizioni degli altri e allora ero rimasto ad ascoltare e ad annuire, come spesso mi è capitato in queste settimane.
“Mira! No entiende bien”, spiegava Edwin al vecchio indicandomi, “Pero tu hables un poco italiano, no?”
“Hablo italiano, sì, hora no lo recuerdo”, sorrideva ancora, “hablo tambien inglès!” continuava circondato da visi allegri e un po’ di crudeltà, “Y latin! Y latin!”, diceva riprendendo a camminare e salutandoci.
“Si imagina las cosas” , diceva Edwin quando era lontano e mi raccontava di quando andava in giro millantando di essere l’Alcalde di Caracoto, perché c’erano dei problemi e lui li avrebbe risolti, e diceva “Yo soy l’Alcalde, soy l’Alcalde”, minacciando di far arrestare la gente che lo prendeva in giro. “Es un pochito loco, me entiendes?”.
Io lo capivo e risposi “pazzo!” quando mi chiese come si esprimeva lo stesso concetto in italiano.
“Es pazo!”  concluse.

***

Juliaca



Avevo detto di Juliaca che era una città confusa. In queste settimane ci sono tornato varie volte, con il Padre, con Vicky e con Johnny, non mutando mai la prima impressione. All’inizio ho pensato che si trattasse della confusione caotica di ciò che non è ben sistemato (magari le strade strette, pochi marciapiedi, leggi imprecise) perché ad un osservatore esterno il traffico appare davvero come un attributo particolare e inconsueto.
Le automobili e le corriere sono perlopiù di marca asiatica, con qualche coloratissimo maggiolino Volkswagen a fare da sporadica eccezione. Tutte queste si muovono sulle strade come le molliche di pane trasportate da un nugolo di formiche operaie, in questo caso i minitaxi e i risciò. L’anarchico spostamento in avanti pare essere l’unica spinta di un movimento globale altrimenti complesso e imprevedibile. La precedenza non è un obbligo legale, né una forma di cortesia: ogni volta che poggi il piede sul freno per prudenza o anche solo per non mettere sotto qualcuno, vieni investito (questa volta tu) da un irruente rumore di clacson, quelli potenti dei camion, ma anche le trombe da Carnevale che si trovano nei risciò. Probabilmente è solo una forma d’abitudine perpetuata senza cattiveria, ma rappresenta ugualmente il sottofondo sonoro di tutti i minuti di Juliaca.
Questo “flusso in avanti” è ostacolato da deviazioni nel cammino: bivi, semafori, persone sedute per terra e carrette di venditori ambulanti; rarissime volte  si esibiscono nella loro palese impotenza, gli ausiliari del traffico, fanno cenni al vento e questionano sulla cintura di sicurezza o sugli adesivi che mancano alla macchina



Il traffico, questo aspetto della città, è solo una parte limitata di un fenomeno più complesso, una specie di “confusione di intenti”, che appare invece in altre situazioni.
Juliaca è una città sterminata e le vie si somigliano tutte, in un modo che a prima vista appare inestricabile. Ogni angolo è un punto di vendita e ogni oscura bottega è un distributore di servizi.  La prima occhiata più attenta riempie la mente di quello che può sembrare essenziale per gli abitanti e ovunque si incontrano pollerias , clinicas dental e farmacias, ma non è tutto.
Addentrandosi nella profondità dei dettagli si comincia ad intuire una logica più specifica. Il giorno in cui siamo stati al mercato, Vicky me l’ha sintetizzata molto bene; mi ha detto, “Ogni calle è specializzato nella vendita di qualcosa: questo ad esempio è il calle dei condimientos” e mi indicava la fila di botteghe riempite da quantità di pesantissimi sacchi di erbe, peperoncini secchi, spezie e tutto quanto può servire a dare sapore alla carne e alla sopa.
Poi siamo passati attraverso il calle dei calzolai , quello degli arrotini, quello dei venditori di pelli e quello dei venditori di carne. Il calle dei parrucchieri (pelluqueros) e dei saloni di bellezza era una coloratissima successione di cartelli di propaganda, facce di divi e poltrone girevoli. Sembravano dire “Vieni da me e avrai i capelli di Brad Pitt oppure la tinta bionda di Shakira, vieni, dai, entra…”, ma parevano non ricevere ascolto da nessuno, e ogni peruviano, anzi, esibiva il taglio classico, cortissimo ai lati e un po’ più folto davanti, eternamente scuro.



Quella mattina andavamo al mercato a fare la spesa per la settimana. Vicky e Ilda, una delle cuoche, si muovevano con disinvoltura in mezzo alle botteghe (tiendas) ambulanti. Avevano esperienza e contatti di fiducia e con la loro lista andavano prima da quello per il riso e lo zucchero, poi da quell’altro per la verdura, poi dalla signora della carne “perché è l’unica che tiene la bilancia sullo zero”.
E la frutta? “No, per la frutta dobbiamo andare in un mercato più lontano, perché è fresca e costa meno”, e ci muovevamo verso un’altra zona della città. Lasciavamo ogni volta il sacco nella bottega, lo avremmo ripreso dopo con l’auto e con Johnny, che sarebbe venuto per riportarci a Caracoto.
I mercati di strada si somigliano un po’ tutti e questi non facevano eccezione. I venditori gridavano, a volte con megafono, richiamando da quella parte, dove le mele costavano un sol al chilo, oppure c’erano altri che esibivano i loro venti sacchi di patate, ciascuno una varietà differente.
E in quasi ogni tienda stavano i frutti e le verdure tipici del Sud America, papayas, chirimoyas,granadillas e paltas; e c’erano anche pannocchie di mais inca (maiz blanco e maiz negro) con dei grani molto grossi. Dal mais bianco tirano fuori delle specie di popcorn dolci, per spuntini senza pretese; dal mais nero una bevanda calda, molto saporita, la chicha morada.



Il sole era molto caldo e ogni banco era riparato da tende di nylon tenute molto basse. La frutta era deposta a montagnola su grossi teli sulla strada e a volte ne occupava un pezzo troppo ampio, di modo che nemmeno i risciò riuscivano a passare. Allora cominciavano a strombazzare coi clacson e i venditori rispondevano gridando e tutto si esauriva, come d’abitudine, nel rumore.
In mezzo alla strada stavano anche i carretti che vendevano salteñas, delle specie di calzoni (ma dalla consistenza più biscottata) ripieni di verdure e carne. Sono tra le specialità della regione di Puño, molto saporite e a buon mercato: quando ne compri, per condirlo ti offrono del limone e delrocoto, una salsa piccante a base di peperoni.



Altri ambulanti vendevano della carne fritta e delle patate, oppure del pollo alla griglia (che è il piatto popolare peruviano). Ovunque ti voltassi, a qualunque ora, potevi trovare qualcosa da mangiare sul posto e potevi vedere gente che già mangiava.
Mi tornava in mente la prima occhiata (pollerie, dentisti e farmacie) e pensavo che in fondo si trattava di una successione logica di necessità collegate; pensavo anche a questa fame senza scopo, senza equilibrio e senza regole che accompagnava tutti per ogni momento.
Ci pensavo molto seriamente e con metodo. Nel frattempo avevo comprato una salteña, e stavo già mangiando anche io.



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2 commenti:

  1. Grande Ugo. Ma posso pubblicizzare il tuo blog o è solo per gli amici?

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    1. Però io non ti posso pagare? È un problema? E poi vieni a trovarmi il 25?

      Un abbraccio

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