Napoleone in Russia
A Caracoto fa un freddo porco.
Di
notte la temperatura scende sotto lo zero, meno dieci, anche meno
diciotto. Padre Manuel una volta mi raccontava che il sabato prima della
festa di San Giovanni è la notte più fredda dell’anno. Purtroppo, alla
mia età, non credo più alle leggende o alle superstizioni* e sono
costretto a dialogare con ciò che la realtà mi presenta.
In
questi giorni c’è un freddo ben peggiore del sabato di San Giovanni e
tutto il tempo trascorre con la giacca addosso. Fuori o dentro, in
realtà è lo stesso: le case sono costituite da sottili muri di mattone e
creta e le finestre sono delle sagome intagliate nel loro stesso
sostegno di vetro, lasciando ampie possibilità alla traspirazione delle
stanze. Non esistono le forme di riscaldamento automatico (calefaccion)
e l’acqua calda proviene da un piccolo silos messo sul tetto delle
case, ma d’inverno è sempre fredda e allora per lavarsi si sfruttano
delle resistenze elettriche nei doccini.
Dopo il tramonto la temperatura cala all’improvviso e il comedor
diventa un posto difficile da abitare ed è opportuno cercare
scappatoie: la casa di Padre Manuel ad esempio, con il camino e una
preziosa stufa a gas, diventa un rifugio solidale e fortunato dove
trascorrere l’attesa delle ore notturne e la cena.
Di
notte, si trova un piccolo spazio vitale sotto il peso di cinque o sei
coperte e con un berretto di lana in capo finalmente si può dormire.
Il
sole è una benedizione quasi quotidiana e solo rare volte il cielo si è
coperto di nuvole. Un cielo grigio in un altipiano è più minaccioso che
in altri scenari, sarà una questione di colori oppure del tormentato
rapporto che ci lega a ciò che pare non avere una fine.
Quando
c’è il sole però si è contenti; gli angoli bagnati dalla luce sono
piccoli tesori di cui cibarsi con avidità. Molto spesso ci sono dieci
gradi di differenza tra le zone illuminate e le parti in ombra e ci si
trova a camminare su piste accecanti con la faccia che si rivolge là
dove può prendere vita.
In
un posto così particolare i momenti della giornata sono scanditi dalla
presenza della luce e ci si alza all’alba, con il canto del gallo. Sotto
le coperte non fa freddo, ma il risveglio è una successione di
movimenti studiati per non disperdere calore, per non subire traumatici
brividi. Uno dei riti quotidiani è la colazione (desajuno) al comedor: qui si mangiano panini ripieni (patè di fegato,uovo, carne o marmellata a seconda dei giorni) che si accompagnano con una copa di mate
o di latte e maizena (o avena). E’ un momento importante, in cui ogni
difficoltà diviene più leggera, e ci si sazia di un primo momento di
insperato calore.
Dopo si sta un po’ al sole..
*Mi hanno raccontato, ad esempio, che a Machu Picchu esistono delle
pietre speciali,al cui contatto si può trarre una forma di energia unica,
preziosa e millenaria. Sono curioso, presto mi informerò meglio a riguardo.
***
Durante
queste mattine, si chiacchiera molto con il direttore della scuola
elementare, Hector, e con uno dei maestri, Edwin. “Buenos dias! Que
tal?” o “Hola! Que tal?” mi dicono spesso: sono i saluti più diffusi nel
sud del Perù. A volte si sente un rivoluzionario “Buen dìa”, e a me
viene da pensare a Macondo, che esista davvero e che si trovi dove mi
trovo anche io, ma qui, del colonnello Aureliano, ancora non c’è
traccia.
In
piedi, Hector e Edwin aspettano l’arrivo di tutti i bambini, per poter
andare poi nella scuola, che sta in un altro edificio. Nel frattempo si
riscaldano e conversano con me, con pazienza e con chiunque altro capiti
a tiro.
Chi
passa per la strada saluta con cordialità e sorride. Nella maggior
parte dei casi sono sorrisi rovinati da denti falsi o guasti, ma gli
occhi sono spesso molto belli e la gentilezza si trasmette anche
attraverso di quelli.
Gli
occhi del Señor Saphroner che ci salutava una mattina erano di un
colore metallico, tra il grigio e il blu. “Buenos dias!”, diceva con
timidezza. Il tipico colorito mulatto della faccia era incorniciato da
una barbetta bianca un po’ rada mentre, nella parte alta, teneva un
cappello americano per riparare dal sole i solchi profondi della fronte.
Non capivo molto bene cosa dicesse, ma sentivo che parlava di un hermano, dell’Italia e del trabajo.
“Tiene un hermano in Italia”, mi ha riferito Edwin vedendo la mia
espressione un po’ distratta. “Da venti años!”, aveva continuato,
sembrava divertito.
“Donde
està in Italia?” avevo chiesto, ma quello un po’ spaventato si girava
intorno, prima a destra e poi a sinistra. Non sapeva, non ricordava?
“Mi
papas tambien eran italianos”, aveva aggiunto per cambiare discorso, ma
nel frattempo aveva anche ritrovato un nome per rispondere alla domanda
di prima: “A Genova! Por el trabajo… in Perù poco trabajo”
Edwin continuava a sorridere e chiedeva da quanto tempo non lo vedesse.
“Venti años, sì, venti años” diceva un po’ sconsolato, e poi continuando “sì, l’he visto l’año pasado, no…hora son dos años!”
Il
mio spagnolo incerto non poteva darmi sicurezza nelle contraddizioni
degli altri e allora ero rimasto ad ascoltare e ad annuire, come spesso
mi è capitato in queste settimane.
“Mira! No entiende bien”, spiegava Edwin al vecchio indicandomi, “Pero tu hables un poco italiano, no?”
“Hablo
italiano, sì, hora no lo recuerdo”, sorrideva ancora, “hablo tambien
inglès!” continuava circondato da visi allegri e un po’ di crudeltà, “Y
latin! Y latin!”, diceva riprendendo a camminare e salutandoci.
“Si imagina las cosas” , diceva Edwin quando era lontano e mi raccontava di quando andava in giro millantando di essere l’Alcalde
di Caracoto, perché c’erano dei problemi e lui li avrebbe risolti, e
diceva “Yo soy l’Alcalde, soy l’Alcalde”, minacciando di far arrestare
la gente che lo prendeva in giro. “Es un pochito loco, me entiendes?”.
Io lo capivo e risposi “pazzo!” quando mi chiese come si esprimeva lo stesso concetto in italiano.
“Es pazo!” concluse.
***
Juliaca
Avevo
detto di Juliaca che era una città confusa. In queste settimane ci sono
tornato varie volte, con il Padre, con Vicky e con Johnny, non mutando
mai la prima impressione. All’inizio ho pensato che si trattasse della
confusione caotica di ciò che non è ben sistemato (magari le strade
strette, pochi marciapiedi, leggi imprecise) perché ad un osservatore
esterno il traffico appare davvero come un attributo particolare e
inconsueto.
Le
automobili e le corriere sono perlopiù di marca asiatica, con qualche
coloratissimo maggiolino Volkswagen a fare da sporadica eccezione. Tutte
queste si muovono sulle strade come le molliche di pane trasportate da
un nugolo di formiche operaie, in questo caso i minitaxi e i risciò.
L’anarchico spostamento in avanti pare essere l’unica spinta di un
movimento globale altrimenti complesso e imprevedibile. La precedenza
non è un obbligo legale, né una forma di cortesia: ogni volta che poggi
il piede sul freno per prudenza o anche solo per non mettere sotto
qualcuno, vieni investito (questa volta tu) da un irruente rumore di
clacson, quelli potenti dei camion, ma anche le trombe da Carnevale che
si trovano nei risciò. Probabilmente è solo una forma d’abitudine
perpetuata senza cattiveria, ma rappresenta ugualmente il sottofondo
sonoro di tutti i minuti di Juliaca.
Questo
“flusso in avanti” è ostacolato da deviazioni nel cammino: bivi,
semafori, persone sedute per terra e carrette di venditori ambulanti;
rarissime volte si esibiscono nella loro palese impotenza, gli
ausiliari del traffico, fanno cenni al vento e questionano sulla cintura
di sicurezza o sugli adesivi che mancano alla macchina
Il
traffico, questo aspetto della città, è solo una parte limitata di un
fenomeno più complesso, una specie di “confusione di intenti”, che
appare invece in altre situazioni.
Juliaca
è una città sterminata e le vie si somigliano tutte, in un modo che a
prima vista appare inestricabile. Ogni angolo è un punto di vendita e
ogni oscura bottega è un distributore di servizi. La prima occhiata più
attenta riempie la mente di quello che può sembrare essenziale per gli
abitanti e ovunque si incontrano pollerias , clinicas dental e farmacias, ma non è tutto.
Addentrandosi
nella profondità dei dettagli si comincia ad intuire una logica più
specifica. Il giorno in cui siamo stati al mercato, Vicky me l’ha
sintetizzata molto bene; mi ha detto, “Ogni calle è specializzato nella vendita di qualcosa: questo ad esempio è il calle dei condimientos”
e mi indicava la fila di botteghe riempite da quantità di pesantissimi
sacchi di erbe, peperoncini secchi, spezie e tutto quanto può servire a
dare sapore alla carne e alla sopa.
Poi siamo passati attraverso il calle dei calzolai , quello degli arrotini, quello dei venditori di pelli e quello dei venditori di carne. Il calle dei parrucchieri (pelluqueros)
e dei saloni di bellezza era una coloratissima successione di cartelli
di propaganda, facce di divi e poltrone girevoli. Sembravano dire “Vieni
da me e avrai i capelli di Brad Pitt oppure la tinta bionda di Shakira,
vieni, dai, entra…”, ma parevano non ricevere ascolto da nessuno, e
ogni peruviano, anzi, esibiva il taglio classico, cortissimo ai lati e
un po’ più folto davanti, eternamente scuro.
Quella
mattina andavamo al mercato a fare la spesa per la settimana. Vicky e
Ilda, una delle cuoche, si muovevano con disinvoltura in mezzo alle
botteghe (tiendas)
ambulanti. Avevano esperienza e contatti di fiducia e con la loro lista
andavano prima da quello per il riso e lo zucchero, poi da quell’altro
per la verdura, poi dalla signora della carne “perché è l’unica che
tiene la bilancia sullo zero”.
E
la frutta? “No, per la frutta dobbiamo andare in un mercato più
lontano, perché è fresca e costa meno”, e ci muovevamo verso un’altra
zona della città. Lasciavamo ogni volta il sacco nella bottega, lo
avremmo ripreso dopo con l’auto e con Johnny, che sarebbe venuto per
riportarci a Caracoto.
I
mercati di strada si somigliano un po’ tutti e questi non facevano
eccezione. I venditori gridavano, a volte con megafono, richiamando da
quella parte, dove le mele costavano un sol al chilo, oppure c’erano
altri che esibivano i loro venti sacchi di patate, ciascuno una varietà
differente.
E in quasi ogni tienda stavano i frutti e le verdure tipici del Sud America, papayas, chirimoyas,granadillas e paltas; e c’erano anche pannocchie di mais inca (maiz blanco e maiz negro)
con dei grani molto grossi. Dal mais bianco tirano fuori delle specie
di popcorn dolci, per spuntini senza pretese; dal mais nero una bevanda
calda, molto saporita, la chicha morada.
Il
sole era molto caldo e ogni banco era riparato da tende di nylon tenute
molto basse. La frutta era deposta a montagnola su grossi teli sulla
strada e a volte ne occupava un pezzo troppo ampio, di modo che nemmeno i
risciò riuscivano a passare. Allora cominciavano a strombazzare coi
clacson e i venditori rispondevano gridando e tutto si esauriva, come
d’abitudine, nel rumore.
In mezzo alla strada stavano anche i carretti che vendevano salteñas,
delle specie di calzoni (ma dalla consistenza più biscottata) ripieni
di verdure e carne. Sono tra le specialità della regione di Puño, molto
saporite e a buon mercato: quando ne compri, per condirlo ti offrono del
limone e delrocoto, una salsa piccante a base di peperoni.
Altri
ambulanti vendevano della carne fritta e delle patate, oppure del pollo
alla griglia (che è il piatto popolare peruviano). Ovunque ti voltassi,
a qualunque ora, potevi trovare qualcosa da mangiare sul posto e potevi
vedere gente che già mangiava.
Mi
tornava in mente la prima occhiata (pollerie, dentisti e farmacie) e
pensavo che in fondo si trattava di una successione logica di necessità
collegate; pensavo anche a questa fame senza scopo, senza equilibrio e
senza regole che accompagnava tutti per ogni momento.
Ci pensavo molto seriamente e con metodo. Nel frattempo avevo comprato una salteña, e stavo già mangiando anche io.
***
Grande Ugo. Ma posso pubblicizzare il tuo blog o è solo per gli amici?
RispondiEliminaPerò io non ti posso pagare? È un problema? E poi vieni a trovarmi il 25?
EliminaUn abbraccio