giovedì 28 giugno 2012

Segundo


La fiesta dei campesinos


“Il ventiquattro giugno è la festa di San Giovanni sulle Ande”, mi ha spiegato Vicky, “essa assume dei significati particolari e si fonde con la più importante festa andina dei contadini. Per questo viene generalmente richiamata come festa dei campesidos.”
“Ci sono due feste importanti durante l’anno”, ha proseguito, “Una è la festa dei contadini e l’altra è il Carnevale. Questa dura una settimana, a febbraio, ed è molto sentita anche perché capita con il caldo. Voi avete il caldo adesso: da noi il verano arriva quando da voi c’è il vierno
Durante queste feste la gente non fa altro che bere. Tutta la settimana, ballano, cantano e bevono cerveza. Per sette giorni di fila trangugiano litri e litri di cerveza e sono tutti ubriachi. E la stessa cosa succede alla festa dei contadini.
Una volta era diverso, adesso tutto è sfruttato dai venditori di bevande, tutto è più commerciale. Una volta, era tutto più spontaneo e ricco di significati: la gente tirava fuori il vestito buono, e conservava le bottiglie del vino migliore da condividere con la comunidad; ma era solo un momento simbolico, non un nuovo motivo di incoscienza.
La cerveza ha avvelenato tutti: questo è un posto poverissimo e la gente conserva i propri soldi solo per ubriacarsi a queste feste. Finita la birra sono finiti anche i soldi, e tutto ricomincia da capo, nella terra arida.”


La festa, come ho scoperto, è anticipata nelle scuole al venerdì. I bambini sono arrivati conciati con il vestito contadino della festa e hanno pranzato, proprio alla maniera dei loro genitori, inginocchiati sul terreno e circondando delle coperte imbandite, sistemate al centro. Su queste venivano sparsi a grumi i prodotti della terra andina: huevos (uova), papas (patate), abas (delle specie di fave), ocas e chunios (tuberi simili alle patate ma dal sapore più dolce e la consistenza pastosa).


I bimbi con serietà recitavano il loro ruolo e mangiavano nelle scodelle di terracotta, le chuas, portate per l’occasione; mangiavano con le mani e senza scrupolo per le buone maniere, ma giocavano anche, sorridendo al Padre Manuel che scattava loro delle foto. Lo chiamavano da parte e si mettevano in posa per uno scatto vanitoso, storcendo la bocca in un cenno di sorriso come un innocente vezzo. In fondo, però, sorridevano tutti perché il sole era ben caldo e la giornata limpida, e si stava bene.
Sorridevano tutti, in fondo, perché oggi niente scuola.

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Cinco matrimonios y un funeràl



“Mañana tiengo cinco matrimonios”, diceva alla sera del venerdì Padre Manuel.
E’ tradizione, mi spiegava, che il giorno prima della festa dei campesidos, qualcuno si sposi.
“Le comunidad aspettano il giorno di San Giovanni per fare sposare due novios: porta bene, dicono. I matrimoni, qui in Perù, sono differenti dall’Italia: qui la festa dura per tre giorni, musica, balli e birra. E poi non è una festa offerta solo ai parenti, ma chiunque può partecipare e portare una cassa di cerveza per la giornata. ‘Se io porto una cassa al tuo matrimonio, allora tu me ne porterai due al mio’, funziona così, è un ulteriore occasione di ebbrezza: aspettano i matrimoni con il solo scopo di ubriacarsi. Vedrai en el domingo, quando andrò a fare messa nella comunidad che spettacolo ti si presenterà davanti; vedrai che non si reggeranno in piedi.”

Ed il sabato dei matrimoni, non ho avuto occasione di partecipare ad una di queste feste, ma l’ambiente nel paese era molto allegro e ovunque si sentiva strombazzare di musicanti e colpi di pistola ben auguranti. Le donne sembravano delle bambole decorate con pizzi brillanti di monili e colori vivaci (amarillo, rojo, rosado, azul) che imbandivano le camicie bianche e candide della buona occasione.



Gli uomini vestivano in completi grigi o scuri, ma portavano gioiose cravatte celesti e ballavano incoscienti oppure si guardavano intorno con circospezione. Ogni movimento era scandito dal ritmo sudamericano deille trombe della banda. Ogni cosa suonava allegra e la sposa vestiva di bianco.


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Il vin santo


Arrivata finalmente la domenica del San Giovanni, Padre Manuel cominciava dal primo mattino il suo giro di messe nelle più disperse case di Cristo. Ciascuna comunidad possiede un luogo consacrato, una rudimentale Chiesa dove, la domenica della festa, la gente (e il Padre) si inerpica ad ascoltare questa messa celebrata appositamente per la comunità.
Quella mattina il Padre mi aveva avvisato, “Guarda che c’è da salire per un po’ a piedi, non so se farai fatica per l’altitudine”. Devo dire però che il mate de coca oltre a fare molto bene al mal di testa aggiungeva delle sicurezze inaspettate alla mia volontà: “Proviamo”, dicevo.
E fortunatamente non c’è stato il bisogno di faticare perché un cammino, seppur scosceso, era stato disegnato tra i sassi e i cespugli e il nostro carro potè così salire la collina senza problemi e con qualche scossone.
L’accordo sembrava chiaro fin dalle mie prime osservazioni: il Padre portava breviario, letture e santità mentre ai contadini veniva lasciato l’onere dell’altare, dell’acqua, della croce; la pancia e la presenza, si direbbe altrove. A piccoli gruppi e con un po’ di misurata fatica, questi uomini e queste donne salivano fino alla piccola collina della chiesa per trovare, se non altro, un ristoro per l’anima.
 

L’assemblea, a dire il vero, sembrava non essere ancora comparsa. C'erano invece solo giovani assonnati e inebetiti che trascinavano dietro strumenti musicali e un perdurante stato di ubriachezza.
Erano le nove della mattina e Padre Manuel si muoveva in mezzo al primo gruppo radunato dicendo che non era possibile continuare così. Predicava ben prima della predica, di non poter celebrare una messa per una manica di ubriaconi e che una comunità che vive per l’ebbrezza non può sperare di sovvertire l’estrema pobreza in cui versavano tutti. Detto questo si levò la tunica impolverata e si mise ad attendere la reazione della comunità.
 


Da parte loro, i vecchi più assidui erano increduli e non potevano accettare un disonore di questo tipo e allora avevano cominciato a muoversi per una diplomatica riconciliazione. Si accordarono alla fine con il Padre di tenere da parte i più borracidos, che non erano in grado di ascoltare la messa, mentre quelli più sobri avrebbero partecipato con gioia. E così avvenne, in un’altura ventosa e illuminata dal primo sole che conciliava il sonno e la scarsa attenzione: una quindicina di persone ascoltavano la messa del Padre mentre le altre dormivano o stavano sui sassi alla siesta e qualcuno già salutava il mattino con la prima cerveza.
La messa era appena finita e noi andavamo in pace verso l’auto. Dietro di noi i contadini ubriachi riprendevano possesso della loro giornata e con una strombazzata irriverente salutavano la nostra partenza. “Adios” diceva la tromba.
 

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Il miracolo dei pesci
“Tanti anni fa, qui c’è stata una tragedia terribile”, mi spiegava Padre Manuel una volta risaliti sull’auto, “Un periodo di piogge alluvionali che non finiva mai. Pensa che il lago Titicaca aveva invaso terre per quaranta kilometri rispetto al suo normale bacino.
E’ stato un “diluvio universale”, senza esagerare.
L’acqua aveva allagato tutti i campi ed era arrivata fino a qui. Era una catastrofe: allora la gente moriva davvero di fame perché tutto il raccolto era distrutto e non sapevano di che sopravvivere.
Sì, ci mandavano aiuti, certo; ma non si fidavano del governo, perché i funzionari rubavano: di cento che ricevevano, ne tenevano settanta. C’era molta corruzione all’epoca, c’è ancora naturalmente. Gli aiuti li mandavano alla Chiesa, li mandavano a me: sapevano che noi aiutavamo la gente per davvero.
Tu hai visto la parrocchia. All’epoca era completamente piena di cibo, dal pavimento al soffitto. Tutto il cibo che mandavano lo tenevano le parrocchie, e naturalmente lo distribuivano. Arrivava addirittura del baccalà, qui nessuno ha mai visto il baccalà: ci è toccato spiegare ai contadini come prepararlo, perché è salatissimo, sai, no?
 

Allora una volta dovevo andare in una di queste comunidad proprio a distribuire casse di baccalà: non ti dico che odore terribile avevo in macchina… Sul cammino vengo bloccato dai contadini di un’altra comunidad che pretendono il pesce. Erano affamati, io non potevo farci nulla, ma è stato molto vigliacco. Mi tenevano da parte, avevano squarciato le gomme e svuotavano la macchina dal pesce. Io parlavo con il capo della comunità che mi diceva di lasciar fare, perché con la fame non si può ragionare.
Allora mi sono messo ad urlare: ‘Guardate che Dio vi punirà per questo. La maledizione cadrà sul vostro pesce e vedrete, diventerà salatissimo!’; quelli allora si prendevano gioco di me, e mi coprivano di insulti. Non erano gli insulti che mi davano fastidio, quanto la mancanza di solidarietà.
Il pesce naturalmente era salatissimo e qui sono molto religiosi, una religiosità fanatica come hai visto prima: ho detto che non avrei tenuto messa e i vecchi sono venuti con la coda tra le gambe: ‘Ma Padre, se non fa messa noi saremo maledetti...’
Fanatici, dicevo. Sono tornati qualche giorno dopo, dicendomi: ‘Padre, il pesce non si può mangiare. Faccia qualcosa, ci perdoni…’. Cosa dovevo fare io? E’ gente fatta così, non puoi stare tanto a questionare.
Ora, ad esempio, andremo in un’altra comunità, qui vedrai una festa molto bella. Si riuniscono per ballare e bere, però negli ultimi anni è stata un po’ viziata dalla modernità. Vedrai comunque delle cose molto particolari, ci sarà una processione nel campo della festa e questa seguirà un cammino rettangolare: ad ogni angolo del quadrilatero ci fermeremo e io dovrò benedire le terre. Il ‘quattro’ è un numero molto importante in Perù, perché la numerazione anticamente si basava proprio sul ‘quattro’ e non sul ‘dieci’.
Un’altra cosa che fanno è di dipingere tutti gli animali con della vernice colorata. E’ una tradizione, dicono; comunque vedrai, sono immagini bellissime: tutti i campi pieni di pecore rosse e verdi…”


sabato 23 giugno 2012

Primero


Caracoto, 23 giugno 2012

Caro diario,
sono arrivato a Caracoto. 

Ci sono arrivato viaggiando in aereo, sorvolando le Ande in una giornata tanto limpida da rivelare i più bei colori di un ambiente così magicamente rarefatto: distese verdi e pallide con macchie scure di foreste e di blu. Queste chiazzette scure sono dei laghi: piccoli laghetti di solito, tranne ad un certo punto quando si è imposta in lontananza una gigantesca esibizione di queste macchie blu che sembrava non voler barattare un po’ di posto con nient’altro al mondo: era il famoso Titicaca e tutti sanno che è il lago più alto del mondo.

Si è presentato imponente, a separare le vedute aeree di città insolite dominate da tracce regolari; erano abitati costituiti di sole case basse, uno o due piani, con ampi spazi tra ognuna. La prima, Padre Manuel mi spiegherà, era la città di Puño, mentre la seconda quella di Juliaca, dove sono atterrato e distante quasi 60 km dall’altra.
Juliaca è la città più grande della regione di Puño coi suoi trecentomila abitanti. Credo che avrò modo di parlarne meglio.
L’aeroporto ci ha accolto con fiducia e senza pensarci come potenziali minacce: nessuno controlla, nessuno sospetta e tra l’uscita e il ritiro dei bagagli non ci sono barriere ma musicanti andini, con zufoli e chitarre.
Mentre Padre Manuel mi attendeva davanti all’uscita, io aspettavo di trovarmi di fronte un altro prete.
Mi sono dovuto ricredere, perché Manuel Vassallo Pastor era, al contrario, un uomo imponente e dall’aspetto pratico: non aveva il colletto da prete o la tonaca, ma non teneva neanche la faccia del prete; aveva dei modi bonari e tranquilli e trasudava di una gentilezza infinita, nascondendo degli occhi molto complessi dietro una barba incolta e degli occhiali fumé. In testa teneva un berretto americano sistemato alla bell’e meglio come coronamento di una naturale trascuratezza.


Il veicolo perfetto per l’occasione era un fuoristrada Toyota, con il portabagagli aperto sul retro, come i carri da trasporto. “No, la valigia mettila dentro, ché da lì qualcuno può sempre prenderla mentre siamo fermi”, mi consigliava e io naturalmente obbedivo, probabilmente non ancora pronto all’impatto.
Le case erano tutte basse, di mattoni e di malta ma piene di colori e già riempivo il mio animo di sensazioni straordinarie. Le pareti non conoscevano l’onta dei manifesti pubblicitari, eppure la propaganda era fissata ugualmente con disegni di vernice, delle specie di decalcomanie giganti.
La ciudad brulicava di veicoli improbabili: c’erano delle Apecar chiuse a furgonicino che costituivano l’enorme, formicolante sciame di taxi; altre macchine polverose e risciò, camionette e vecchi catorci completavano l’universo.
Mi permetto di non esplorare altri particolari sui quali sicuramente riprenderò il discorso, ma credo di poter già sintetizzare i miei pensieri con un’unica eloquenza.
La città appariva confusa.

 
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El comedor
Siamo solo povere ed ombra. E soroche.
I primi giorni a Caracoto (sono arrivato giovedì pomeriggio), passano senza poter avere un’esperienza attiva con la mensa (el comedor) e l’asilo (el jardin). Padre Manuel e Vicky, la responsabile della struttura, mi hanno accompagnato alla mia habitacione, e mi hanno sistemato davanti una tazza di mate de coca. “E’ per il soroche”, il mal delle Ande, mi spiegano. “I primi giorni è meglio se dormi e stai tranquillo. Non portare pesi, non correre. “
E io ho dormito, mangiato, spolverato il cappotto, e sorseggiato il mate de coca. E nuovamente dormito e mangiato e spolverato e sorseggiato.
Nelle pause da questa frenetica attività ho scattato qualche foto, di soppiatto.
 
 
 
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L’acqua santa
In uno dei primi momenti di colloquio, Manuel mi stava raccontando la storia del Comedor, di come era nato e di come era diventato grande grazie alla straordinaria volontà dei cari di Giordano Liva: “Ora dobbiamo muoverci da soli, dobbiamo cercare di non dipendere più dai soldi di Pisa”, diceva e mi raccontava della cooperativa che stava appena nascendo, e della scuola elementare che naturalmente sembrava prendere piede come proseguimento dell’attività dell’asilo, il Jardin.
Mentre mi parlava di tutte queste cose si era accostata a noi una moto e un tipo lievemente imbarazzato stava chiedendo già qualcosa a padre Manuel, ma io non capivo. “Per queste cose serve il medico, non il prete”, rispondeva per quel che potevo intendere. L’altro stava richiedendo qualcosa agitando una bottiglietta vuota. Manuel aveva fatto un cenno rassegnato e allora l’uomo finalmente si allontanava verso la piazza davanti la parrocchia, ma la sua moto era ancora vicino a noi come una garanzia di ritorno.
E infatti, dopo qualche minuto il tipo camminava nuovamente verso di noi, questa volta con la bottiglia piena d’acqua.
“Devi andare dal medico”, lo riprendeva Manuel mentre con le dita della mano destra rendeva benedetta l’acqua, “Questa può dar sollievo alla testa, ma per il cuore ci vuole il medico” .
Il tipo sorrideva e annuiva, ché tanto è il sollievo che conta.
 
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Le coperte alla comunidad
In questi primi giorni sono come un chierichetto al seguito di Padre Manuel. Questa volta aveva appuntamento con la comunidad contadina di Caracoto. Aveva ricevuto venticinque coperte di lana da distribuire ai più bisognosi e aveva stabilito di donarle ai più vecchi della comunità. “Sai, è difficile stabilire chi abbia più bisogno. Io ho solo venticinque coperte, nella comunità ci saranno sessanta persone. Chiaro che siamo in una zona poverissima, tutti ne han bisogno. Ma come fai? Appena distribuisci senza criterio ti arriva qualcuno che ne pretende ugualmente. Allora dico di darlo ai vecchi, loro sono soli e poverissimi. Ho qui una lista di venticinque persone. Vedrai adesso che ressa ci sarà: pensa che hanno annunciato alla radio che Padre Manuel avrebbe distribuito coperte a tutti i contadini … Cose da pazzi!”


E infatti all’appuntamento si sono presentati ben oltre i famosi “venticinque”, ma il Padre era piuttosto risoluto e aveva appena consegnato al capo della comunità il suo foglio di nomi. “Ho solo venticinque coperte, questi sono i venticinque destinatari. Non posso fare altro, abbiate pazienza.”
L’uomo aveva preso il foglio e si era mosso con delusione verso i suoi compagni. Il Padre, invece, pareva accettare un po’ a malincuore la carità ingiusta della quale doveva essere il braccio privilegiato. Sceso dalla macchina prese a distribuire le coperte con un appello stanco, sotto un sole molto caldo e tra sguardi e pensieri diversi.


Gli sguardi dei vecchi peruviani avevano un corredo straordinario, di gonne colorate e trecce sotto i cappelli. Stavano seduti sui sassi, nella polvere, a bruciare sotto il cielo i propri visi mulatti, riempiendoli di crepe e rughe.
“Questo altipiano andino è molto caldo perché sta sotto la zona più sottile del buco dell’ozono“ mi dice Padre Manuel. “Dovresti assolutamente comprare un cappello”, insisteva.
Ho comprato un cappello, a larghe tese.
 
 

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La guerra


“Cos’è il ‘sendero luminoso’? “, mi ritrovai a chiedere a Manuel dopo che lo aveva appena nominato in un discorso. Rispose più o meno così:
“Qui c’è stata una guerra, per venti anni, fino agli anni novanta. Il sendero luminoso è il gruppo terroristico che l’ha portata avanti contro il governo.
Portavano avanti idee maoiste, radicalizzandole completamente: hanno fatto sterminio di dirigenti di sinistra, di destra, dirigenti in gamba…
E’ stato un periodo terribile. Noi non potevamo uscire dopo le cinque del pomeriggio. Le persone non potevano girare sulle strade e non c’erano luci di notte. Tutto buio, terribile.

Anche noi preti eravamo in mezzo ai fuochi. Eravamo un gruppo giovane di preti, e facevamo discorsi progressisti. Questo ci rendeva sospetti agli occhi della polizia, pensavano che tra di noi ci fossero membri del gruppo. Dall’altra parte quelli del Sentiero dicevano che non ci avrebbero toccato, perché aiutavamo la gente, ma ci consideravano anche come il dolce che sarebbe venuto dopo la cena. E noi eravamo terrorizzati, senza sapere a che piatto erano arrivati…
Addirittura c’erano alcuni che venivano a confessarsi e dicevano che erano membri del Sendero, e che volevano essere portati alla frontiera per fuggire dalla tragedia. E noi non sapevamo se questi dicessero il vero, o fossero agenti del servizio segreto che volevano capire se tu, prete, facevi il terrorista. E c’erano anche di questi: terroristi infiltrati tra i preti.
Ma noi facevamo del bene: avevamo portato avanti un soccorso equo tra le vittime delle stragi; i feriti non avevano bandiera per noi, avevamo una linea da seguire e la portavamo avanti. Con coraggio dici tu, ma non puoi immaginare: ad un momento la polizia, il sindaco i governanti erano andati tutti via da qui. Era tutto sulle nostre spalle.
Tre volte all’anno, venivano degli psichiatri dall’argentina per alleviare le nostre paure. Per una settimana facevamo riunioni comunitarie per darci sostegno l’un l’altro e ci trovavamo a piangere come bambini.
E’ stato un periodo terribile.”
 
 

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