Caracoto, 23 giugno 2012
Caro diario,
sono arrivato a Caracoto.
Caro diario,
sono arrivato a Caracoto.
Ci sono arrivato viaggiando in aereo,
sorvolando le Ande in una giornata tanto limpida da rivelare i più bei
colori di un ambiente così magicamente rarefatto: distese verdi e
pallide con macchie scure di foreste e di blu. Queste chiazzette scure
sono dei laghi: piccoli laghetti di solito, tranne ad un certo punto
quando si è imposta in lontananza una gigantesca esibizione di queste
macchie blu che sembrava non voler barattare un po’ di posto con
nient’altro al mondo: era il famoso Titicaca e tutti sanno che è il lago più alto del mondo.
Si
è presentato imponente, a separare le vedute aeree di città insolite
dominate da tracce regolari; erano abitati costituiti di sole case
basse, uno o due piani, con ampi spazi tra ognuna. La prima, Padre
Manuel mi spiegherà, era la città di Puño, mentre la seconda quella di
Juliaca, dove sono atterrato e distante quasi 60 km dall’altra.
Juliaca è la città più grande della regione di Puño coi suoi trecentomila abitanti. Credo che avrò modo di parlarne meglio.
L’aeroporto
ci ha accolto con fiducia e senza pensarci come potenziali minacce:
nessuno controlla, nessuno sospetta e tra l’uscita e il ritiro dei
bagagli non ci sono barriere ma musicanti andini, con zufoli e chitarre.
Mentre Padre Manuel mi attendeva davanti all’uscita, io aspettavo di trovarmi di fronte un altro prete.
Mi
sono dovuto ricredere, perché Manuel Vassallo Pastor era, al contrario,
un uomo imponente e dall’aspetto pratico: non aveva il colletto da
prete o la tonaca, ma non teneva neanche la faccia del prete; aveva dei
modi bonari e tranquilli e trasudava di una gentilezza infinita,
nascondendo degli occhi molto complessi dietro una barba incolta e degli
occhiali fumé. In testa teneva un berretto americano sistemato alla
bell’e meglio come coronamento di una naturale trascuratezza.
Il veicolo perfetto per l’occasione era un fuoristrada Toyota, con il portabagagli aperto sul retro, come i carri da trasporto. “No, la valigia mettila dentro, ché da lì qualcuno può sempre prenderla mentre siamo fermi”, mi consigliava e io naturalmente obbedivo, probabilmente non ancora pronto all’impatto.
Le case erano tutte basse, di mattoni e di malta ma piene di colori e già riempivo il mio animo di sensazioni straordinarie. Le pareti non conoscevano l’onta dei manifesti pubblicitari, eppure la propaganda era fissata ugualmente con disegni di vernice, delle specie di decalcomanie giganti.
La ciudad brulicava di veicoli improbabili: c’erano delle Apecar chiuse a furgonicino che costituivano l’enorme, formicolante sciame di taxi; altre macchine polverose e risciò, camionette e vecchi catorci completavano l’universo.
Mi permetto di non esplorare altri particolari sui quali sicuramente riprenderò il discorso, ma credo di poter già sintetizzare i miei pensieri con un’unica eloquenza.
La città appariva confusa.
***
El comedor
Siamo solo povere ed ombra. E soroche.I primi giorni a Caracoto (sono arrivato giovedì pomeriggio), passano senza poter avere un’esperienza attiva con la mensa (el comedor) e l’asilo (el jardin). Padre Manuel e Vicky, la responsabile della struttura, mi hanno accompagnato alla mia habitacione, e mi hanno sistemato davanti una tazza di mate de coca. “E’ per il soroche”, il mal delle Ande, mi spiegano. “I primi giorni è meglio se dormi e stai tranquillo. Non portare pesi, non correre. “
E io ho dormito, mangiato, spolverato il cappotto, e sorseggiato il mate de coca. E nuovamente dormito e mangiato e spolverato e sorseggiato.
Nelle pause da questa frenetica attività ho scattato qualche foto, di soppiatto.
***
L’acqua santa
In
uno dei primi momenti di colloquio, Manuel mi stava raccontando la
storia del Comedor, di come era nato e di come era diventato grande
grazie alla straordinaria volontà dei cari di Giordano Liva: “Ora
dobbiamo muoverci da soli, dobbiamo cercare di non dipendere più dai
soldi di Pisa”, diceva e mi raccontava della cooperativa che stava
appena nascendo, e della scuola elementare che naturalmente sembrava
prendere piede come proseguimento dell’attività dell’asilo, il Jardin.Mentre mi parlava di tutte queste cose si era accostata a noi una moto e un tipo lievemente imbarazzato stava chiedendo già qualcosa a padre Manuel, ma io non capivo. “Per queste cose serve il medico, non il prete”, rispondeva per quel che potevo intendere. L’altro stava richiedendo qualcosa agitando una bottiglietta vuota. Manuel aveva fatto un cenno rassegnato e allora l’uomo finalmente si allontanava verso la piazza davanti la parrocchia, ma la sua moto era ancora vicino a noi come una garanzia di ritorno.
E infatti, dopo qualche minuto il tipo camminava nuovamente verso di noi, questa volta con la bottiglia piena d’acqua.
“Devi andare dal medico”, lo riprendeva Manuel mentre con le dita della mano destra rendeva benedetta l’acqua, “Questa può dar sollievo alla testa, ma per il cuore ci vuole il medico” .
Il tipo sorrideva e annuiva, ché tanto è il sollievo che conta.
***
***
Le coperte alla comunidad
In questi primi giorni sono come un chierichetto al seguito di Padre Manuel. Questa volta aveva appuntamento con la comunidad
contadina di Caracoto. Aveva ricevuto venticinque coperte di lana da
distribuire ai più bisognosi e aveva stabilito di donarle ai più vecchi
della comunità. “Sai, è difficile stabilire chi abbia più bisogno. Io ho
solo venticinque coperte, nella comunità ci saranno sessanta persone.
Chiaro che siamo in una zona poverissima, tutti ne han bisogno. Ma come
fai? Appena distribuisci senza criterio ti arriva qualcuno che ne
pretende ugualmente. Allora dico di darlo ai vecchi, loro sono soli e
poverissimi. Ho qui una lista di venticinque persone. Vedrai adesso che
ressa ci sarà: pensa che hanno annunciato alla radio che Padre Manuel
avrebbe distribuito coperte a tutti i contadini … Cose da pazzi!”
E
infatti all’appuntamento si sono presentati ben oltre i famosi
“venticinque”, ma il Padre era piuttosto risoluto e aveva appena
consegnato al capo della comunità il suo foglio di nomi. “Ho solo
venticinque coperte, questi sono i venticinque destinatari. Non posso
fare altro, abbiate pazienza.”
L’uomo
aveva preso il foglio e si era mosso con delusione verso i suoi
compagni. Il Padre, invece, pareva accettare un po’ a malincuore la
carità ingiusta della quale doveva essere il braccio privilegiato. Sceso
dalla macchina prese a distribuire le coperte con un appello stanco,
sotto un sole molto caldo e tra sguardi e pensieri diversi.
Gli
sguardi dei vecchi peruviani avevano un corredo straordinario, di gonne
colorate e trecce sotto i cappelli. Stavano seduti sui sassi, nella
polvere, a bruciare sotto il cielo i propri visi mulatti, riempiendoli
di crepe e rughe.
“Questo
altipiano andino è molto caldo perché sta sotto la zona più sottile del
buco dell’ozono“ mi dice Padre Manuel. “Dovresti assolutamente comprare
un cappello”, insisteva.
Ho comprato un cappello, a larghe tese.
“Cos’è il ‘sendero luminoso’? “, mi ritrovai a chiedere a Manuel dopo che lo aveva appena nominato in un discorso. Rispose più o meno così:
“Qui c’è stata una guerra, per venti anni, fino agli anni novanta. Il sendero luminoso è il gruppo terroristico che l’ha portata avanti contro il governo.
Portavano
avanti idee maoiste, radicalizzandole completamente: hanno fatto
sterminio di dirigenti di sinistra, di destra, dirigenti in gamba…
E’
stato un periodo terribile. Noi non potevamo uscire dopo le cinque del
pomeriggio. Le persone non potevano girare sulle strade e non c’erano
luci di notte. Tutto buio, terribile.
Anche
noi preti eravamo in mezzo ai fuochi. Eravamo un gruppo giovane di
preti, e facevamo discorsi progressisti. Questo ci rendeva sospetti agli
occhi della polizia, pensavano che tra di noi ci fossero membri del
gruppo. Dall’altra parte quelli del Sentiero dicevano che non ci
avrebbero toccato, perché aiutavamo la gente, ma ci consideravano anche
come il dolce che sarebbe venuto dopo la cena. E noi eravamo
terrorizzati, senza sapere a che piatto erano arrivati…
Addirittura c’erano alcuni che venivano a confessarsi e dicevano che erano membri del Sendero,
e che volevano essere portati alla frontiera per fuggire dalla
tragedia. E noi non sapevamo se questi dicessero il vero, o fossero
agenti del servizio segreto che volevano capire se tu, prete, facevi il
terrorista. E c’erano anche di questi: terroristi infiltrati tra i
preti.
Ma
noi facevamo del bene: avevamo portato avanti un soccorso equo tra le
vittime delle stragi; i feriti non avevano bandiera per noi, avevamo una
linea da seguire e la portavamo avanti. Con coraggio dici tu, ma non
puoi immaginare: ad un momento la polizia, il sindaco i governanti erano
andati tutti via da qui. Era tutto sulle nostre spalle.
Tre
volte all’anno, venivano degli psichiatri dall’argentina per alleviare
le nostre paure. Per una settimana facevamo riunioni comunitarie per
darci sostegno l’un l’altro e ci trovavamo a piangere come bambini.
E’ stato un periodo terribile.”
Ciao Ugo! Mi sa che ti seguirò da qui! Mi piace molto questa tua forma di condivisione!grazie
RispondiEliminaDa oggi ti leggerò puntualmente. In poco tempo recupererò le diverse puntate. Ti abbraccio fortissimo
RispondiEliminacon padre manuel come un chierichetto ?!? :)
RispondiEliminaAmen. Poi dovresti darmi una tua mail più recente, perché ho solo quella di msn. Comunque, ti trovo tra una settimana?
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