lunedì 20 agosto 2012

Ultimo


Senza foto

Ma queste donne peruviane che siedono ai bordi delle strade, a cosa pensano tutto il giorno? Come fanno a sopravvivere all’inedia, al tempo che non passa mai. Sono avvolte da pesanti coperte e paiono solo minimamente indaffarate intrecciando a volte dei maglioni, o strappando la pelle alle pannocchie di mais. Forse pensano che in fondo non abbia senso affannarsi a vivere vite frenetiche, spinti da bisogni costruiti e da esigenze secondarie, in un patto a perdere con la propria ambizione. In fondo, magari, il mondo peruviano non è così diverso da quello occidentale, e in fondo i giovani peruviani cercano solo di inseguire quello che per loro è il sogno occidentale (e pian piano ci si avvicinano pure, a partire dalla Coca Cola Company, che qui distribuisce anche l’acqua da bere, oppure i vari fast food che mettono radici e avvelenano ogni tradizione).
Le donne di prima, non hanno coscienza che esiste a Lima un quartiere come Miraflores, fatto di strade larghe e pulite,alti condomìni con giardino e macchine preziose. Ci sono molti locali, ristoranti e casinò e tutto costa come in Europa, quando a dieci chilometri di distanza le persone vivono in delle specie di baraccopoli. Forse si può dire che è un bene che ci siano posti in Perù più agiati, dove le persone possono vivere seguendo i canoni di benessere che seguiamo in occidente, però non sarebbe stato meglio di fare dei passi più piccoli tutti insieme, invece di alimentare questo squilibrio agghiacciante?
Quello che ora avviene in paesi come il Perù è una predestinazione delle possibilità del singolo individuo. Se un ragazzo nasce a Lima può virtualmente fare quello che vuole (almeno in Sud America), ma se nasce a Juliaca ha già un futuro segnato, e sarà un meccanico, un contadino, un tassista o se più fortunato sarà un ingegnere poche centinaia di chilometri più a nord.
Allora lavoriamo sull’educazione, perché l’istruzione è ciò che può rendere gli individui liberi di autodeterminarsi. Questo è un punto delicato, perché le scuole e le università sono figlie dei contesti, e non c’è molto da scandalizzarsi a pensare che a Lima si concentreranno professori bravi e a Puño dei gruppi di ubriaconi impreparati. E d’altronde, se davvero esistesse questa capacità di autodeterminarsi per tutti gli individui, chi potrebbe scegliere spontaneamente la miseria per il proprio destino (o in altra forma, chi andrebbe a coltivare campi, chi sceglierebbe di vivere in un Apecar tutto il giorno, tutti i giorni, facendo il tassista).
Però  la libertà di costruire il proprio futuro non significa garantire la sicurezza di riuscire, ma solo l’offerta di una possibilità uguale per tutti. Forse questo è il miglior punto di vista, anche se implica una ciclica gara di sopravvivenza, nella quale gli uomini competono per occupare i posti migliori: un ricorso alle tendenze precedenti ai patti sociali; ci ritroviamo dopo millenni con delle prove innegabili di eccezionali capacità tecnologiche e contemporaneamente non riusciamo a superare questi limiti, forse istintivi. Il concetto di bene comune passa per la soddisfazione primaria del bene del singolo: nella nostra cultura non può essere altrimenti, ma ho il dubbio che le scelte del Sud America siano profondamente condizionate da spinte esterne che seguono i miti occidentali: io non demonizzo la televisione, ma qui pare avere un ruolo di reale formazione delle idee e delle aspirazioni e davvero sembra influenzare la vita delle persone.
Chi lavora per creare alternative a questa visione non può essere troppo radicale, e allora timidamente si prodiga ad inventare piccole realtà costruttive in comunità terribilmente mutilate. Tutti i promotori dei progetti di volontariato, tutti i volontari fanno un’opera di meravigliosa responsabilità solidale, ma sono sforzi intrisi di una specie di masochismo: è come curare una rosa in un giardino  di sequoie, e tutto il lavoro che il giardiniere può garantire non sarà sufficiente perché la luce sarà sempre negata al fiore. Possiamo gioire che esistano persone con una idea differente del bene comune che scelgono di dedicare parte del proprio tempo ad un bisogno condiviso.
Sono disperato quando penso che tutto questo impegno non ha impatto sul mondo.
E mi spavento a pensare che probabilmente il mondo sia davvero senza speranza, e l’unico vero cammino sostenibile sarebbe quello di vivere con la consapevolezza di non averne alcuna: a volte penso che questa sia l’unica speranza da augurarsi.

***

Non  posso scusarmi per i miei pensieri scuri, posso solo prenderne atto e scegliere di comunicarveli.
Posso anche ringraziare chi ha voluto leggere questo diario: per me è stato molto piacevole e spero sia stato così anche per alcuni di voi.

Caracas, 19 agosto 2012             
                                                                                                                                                             Ugo

sabato 18 agosto 2012

Décimo


E vissero tutti felici e contenti



Prima di lasciare Cusco avevo chiesto a Padre Manuel e a Percy dei consigli su quali città potessi visitare nel mezzo del lungo cammino che mi avrebbe portato a Lima. Entrambi mi han suggerito di fare una sosta ad Ayacucho e Percy, più dettagliatamente, aveva elaborato una specie di programma di viaggio, che comprendeva anche delle fermate ad Andahuaylas e Huancayo, altre città della zona centrale. Ayacucho, mi spiegava, è stato il centro principale della lotta al terrorismo, il luogo dove il Sendero Luminoso ha operato con maggior frequenza. “Si tratta del Perù più povero, è importante che tu possa averne conoscenza prima di ripartire. Qui a Cusco, questi momenti più bui della storia del nostro paese sono nascosti ai turisti: nelle città che ti ho suggerito potrai vedere con gli occhi e toccare con mano quello che è stato il terrorismo in Perù.”



 Per prepararmi alla visita mi ha dato da leggere il rapporto della Comisiòn de la Verdad y Reconciliacion, istituita per far luce sugli avvenimenti di quel periodo.
E’ stata una lettura terribile e rivelatrice. Il documento, un passo alla volta, ricostruisce eventi, modalità e responsabilità dei venti anni (dal 1980 al 2000) del conflitto armato interno ed è stato un punto di riferimento importante per capire la successiva comparsa della lunga dittatura ta di Fujimori e del lento e non ancora completo ritorno alla democrazia.



Le divisioni etniche, il clima di sospetto, la dissoluzione dei legami sociali sono stati gli effetti più terribili di questa lotta, ma il bilancio dei morti e dei desaparecidos è disarmante:  sono i numeri che rimangono più impressi nella percezione del disastro. La commissione parla di settantamila morti, per la maggior parte concentrati nel triennio 1982-1984: la metà di questi  vivevano nel distretto di Ayacucho, la quasi totalità parlava la lingua quechua. La maggior parte delle vittime erano contadini delle zone più rurali, con un livello di educazione bassissimo, e rimangono, ancora oggi, i simboli più evidenti di una distribuzione iniqua delle scelte del conflitto. La commissione individua nel gruppo estremista del Partito Comunista Peruano, il Sendero Luminoso, il principale responsabile della guerra. E’ una responsabilità indubbia, ma che anche non può essere limitata al solo gruppo dei senderisti. Lo Stato e altri gruppi di lotta armati hanno avuto le loro parti nei destini della guerra, e la Comisiòn individua anche le relative attenuanti legate principalmente all’impreparazione dei vari gradi di gerarchia, non abituati ad affrontare questo tipo di crisi.
La lotta del Sendero è stata solo mascherata di ideologia, quando invece prevaleva una specie di fanatismo religioso nei confronti del suo leader fondatore Abimael Guzman Reinoso, poi arrestato nel 1992. I terribili dati diffusi dalla Commissione rivelano proprio questa finzione: una lotta armata basata su forme irrisolte di razzismo e sul ricorso a violenze terribili, torture, crudeltà ingiustificate.
Ad Ayacucho esiste un Museo della Memoria, un luogo anche un po’ sacrificato: lontano dal centro storico e limitato a due sole stanze, ma racconta molto di quello che è successo, in una collezione di capi di abbigliamento e di storie degli uomini che li vestivano; ci sono molte foto e alcuni documenti. Ci sono descrizioni dettagliate proprio delle torture: la gente veniva legata a un palo e colpita a sangue, oppure veniva quasi annegata nell’acqua insaponata o mutilata in qualche parte del corpo o ancora subiva scariche elettriche nelle zone genitali. Se poi non serviva più veniva accantonata con altri corpi e lasciata in gigantesche fosse comuni, oppure cremata in delle specie di forni per uomini. E’ il motivo per cui non si hanno più speranze per i desaparecidos: il museo può aiutare solamente un poco ad avvicinarsi alla vera comprensione di quello che significa pensare ad un proprio caro come disperso: è uno stato di speranza irrisolta, una perpetuazione terribile della vita dove già non esiste più, ma non se ne hanno le prove.



La fondazione che promuove il museo è stata istituita da Mama Angelica che ha visto il figlio Arquimedes portato via a diciannove anni da un commando, senza ragione e senza riceverne più notizie. Per anni la Fondazione ha lavorato per aiutare le famiglie dei desaparecidos e soprattutto per  sensibilizzare tutta la popolazione peruviana al dramma: infatti, nel resto del Paese non coinvolto, per moltissimo tempo  non c’è stata alcuna consapevolezza del genocidio; solo oggi si comincia a comprendere cosa è successo e pian piano si sta cercando di uscirne vivi studiando altre misure di risarcimento, altri compromessi con la storia.



Appena fuori dal museo ci si sente saturi di angoscia e sepolti dal peso della tragedia. Appena fuori dal museo c’è una chiesa,  e sulla parete bianca esterna c’è una grande scritta che recita solennemente: “Cristo! Salva, Sana, Santifica y viene otra vez”, ma non è davvero il luogo giusto per crederci una seconda volta.

***



Da Cusco, ad Ayacucho e poi a Pisco è stato come un lungo sogno ininterrotto. Una successione di notti in autobus e giornate accigliate, piene di sbadigli e coscienza ovattata. Le sensazioni si mescolavano ad un cielo sempre più scolorito e ad un paesaggio sempre più informe. Mi stavo muovendo verso la costa, verso il freddo Pacifico, verso la zona di Nasca, di Ica e di Paracas: luoghi pieni di sabbia e di testimoni. Le prime grandi comunità andine si sono mosse da qui, e in queste zone hanno lasciato prove spettacolari del proprio passaggio nelle famose linee di Nasca, quelle che attirano i creduloni di tutto il mondo e naturalmente le astronavi aliene.
Ica è invece la città dei vini e dei liquori, che sono prodotti nelle vicinanze. In Perù non si beve molto vino e quelli che ho assaggiato sono in prevalenza dolci e un po’ stopposi, ma  comunque gradevoli. Tra Ica e la costa il paesaggio cambia deciso e cominciano a comparire palme secche e ampie dune sabbiose, e poi c’è lo stesso cielo, che rende triste tutta la sabbia. Il mare non cambia le cose e anzi rende labile la linea dell’orizzonte, che quasi non si distingue più. Forse è un modo per preparare l’ingresso a Pisco, forse è una forma di rispetto per una giornata molto importante.
Esattamente cinque anni fa, proprio il 15 Agosto, un terremoto violentissimo rase al suolo la comunità di Pisco. Chi me ne ha parlato lo ha fatto sempre con una specie di timore ad avvicinarsi a certi ricordi. Dalle centinaia di morti, alle strade aperte a metà agli edifici violati: la maggior parte dei dettagli rivelava un’immagine di apocalisse.  La cattedrale che aveva due torri campanarie oggi non esiste più e al suo posto si trova un modernissimo edificio appena inaugurato e ben lontano dallo stile coloniale della precedente. Finora chi aveva avuto bisogno di farsi consolare dalla propria fede aveva sfruttato un capannone aperto da un lato e coperto solo da una tenda bianca, come un sipario, con all’interno qualche panca ed un altare dedicato alla Virgen Maria.



Il municipio è invece quello vecchio, rimasto in piedi per una specie di miracolo con una torre dell’orologio ancora in bilico, ma anche testardamente al proprio posto. Si è deciso di non buttarla giù, come per un atto simbolico, una specie di invito a rialzarsi tutti, quelli coi cari sepolti, quelli sfollati, quelli senza speranza. E lentamente la comunità si è mossa, ha messo a posto le crepe, ha ricostruito le case con pochi piani e pochi dettagli. Adesso sembra una città piena di prefabbricati (ma qui non ci sono prefabbricati) sistemati come file di container. Alcuni sono stati verniciati (gialli o azzurri, i colori più marini), gli altri mostrano ancora le proprie nudità in attesa di tempi migliori. Gli abitanti sembrano voler dimenticare, ma la commemorazione di oggi li rimette prepotentemente di fronte al disastro e i bambini delle scuole sfilano con cartelloni e con foto che non lasciano scampo alla commozione e al ricordo.




I turisti si riaffacciano nella città che prima era un luogo molto visitato per via delle vicine attrattive naturali della penisola di Paracas coi suoi cormorani, i leoni marini e piccoli pinguini. La zona dedicata ai visitatori è già piena di taverne, pub e ristoranti di mare che hanno prezzi un po’ più alti e inoltre ci sono parecchie sale da gioco e casinò che testimoniano questa affannosa ricerca di normalità, ma priva di identità: basata solo sulla logica della sopravvivenza e del commercio. Ora che le crepe sono coperte e gli edifici ricostruiti è difficile trovare segni esteriori di quello che è successo, ma ce ne sono di nascosti e le persone che li svelano lo fanno con un sorriso gentile, quasi a mettere le mani avanti, quasi a dire: “non so se lo sa, ma qui c’è stato un terremoto violentissimo e ha distrutto tutto: come siamo oggi, non è stata colpa nostra.”



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domenica 12 agosto 2012

Noveno


L’ombelico del mondo



Cusco è stata capitale dell’impero Inca nel suo momento più fiorente, sotto l’imperatore Pachacuteq. Poi gli spagnoli han vinto la guerra impari contro la civiltà andina e ne han distrutto i simboli del potere, le straordinarie costruzioni che l’imperatore aveva fatto realizzare. Pachacuteq era il figlio più illuminato del suo predecessore Virachocha ed ebbe il merito di unire le tribù sparse nella zona sotto la propria egida. La comunità dei Chancha è stata sconfitta in guerra, ma le altre hanno subito il fascino tecnologico e organizzativo degli uomini guidati da Pachacuteq e si sono aggregati con convinzione pacifica.
Pachacuteq ha fatto costruire strade e ha sistemato le strutture di potere in città differenti, per creare un sistema decentralizzato che donasse importanza a molte parti dell’impero, a Machu Picchu, a Pisac, a Ollantaytambo e a Cusco stessa. Ognuno di questi centri aveva la propria funzione e le persone vi si recavano nello spirito della massima efficienza. La fortezza di Sacsayhuamán, alle porte di Cusco, è stata la testimonianza più imponente dello straordinario livello di sviluppo raggiunto dalla popolazione Inca. Oggi ne rimane solo una piccola parte, quello che manca è stato smantellato nell’epoca della Conquista per costruire le chiese o i palazzi militari del centro storico della città. 



Altre testimonianze meglio conservate si trovano nel Valle Sagrado, la valle del Rio Urubamba, a nord-est di Cusco. Si tratta di una serie di centri agricoli o religiosi che ancora oggi mostrano un fascino immutato. A Pisac e a Moray si trovano esempi straordinari delle famose terrazze inca: si tratta di enormi strutture a gradoni che erano sistemate lungo le pendici delle montagne e venivano usate per coltivare i prodotti anche in zone impervie come quelle andine. La differente esposizione alla luce, inoltre, faceva in modo che i vari piani si trovassero a temperature diverse e quindi ciascuno maggiormente adatto alla coltivazione di un prodotto piuttosto che un altro.



Ma il Valle Sagrado è una vetrina incredibile e contiene anche dei templi dedicati al culto del Sole, ad Ollantaytambo.  Qui è possibile trovare delle tracce della mitologia andina nella Chackana, ovvero la croce del sud. Questo simbolo è una specie di scala ripetuta sui quattro lati di un rombo e al centro è sistemato un cerchio vuoto. I tre gradini della scala rappresentano i tre livelli della vita andina, ciascuno rappresentato da un animale: il serpente è il simbolo del mondo inferiore, quello della morte; il puma rappresenta la vita terrestre; il condor è la forma delle divinità, nel livello superiore. Ogni evento cosmico è un conflitto di questi tre mondi e il cerchio, cioè Cusco, cioè l’ombelico del mondo, vuole rappresentare proprio la ciclicità di queste trasformazioni.



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 Cusco mi suggerisce davvero molti pensieri cattivi e per quanto possa sembrare esteriormente splendida ed indimenticabile non mi piace. Trovo che si tratti di un’enorme scenografia, piena di maschere da commedia dell’arte e piena di orde di turisti che la profanano, ma lasciandosi saccheggiare a loro volta.
E’ un piccolo paese dei balocchi circondato da una periferia invisibile e irraggiungibile: il risultato è una grossa varietà di inconsapevolezza da parte di chi la visita, che non può arrivare a conoscerla fino in fondo. L’immagine di Cusco è filtrata da questo insieme di sovrastrutture artificiali e molto moderne che han modificato l’anima della cultura peruviana più antica. Le strade del centro sono come i corsi delle capitali europee e offrono ai visitatori un ampio spettro di scelte, tra multinazionali convenzionali e locali moderni che si ispirano a riferimenti Inca, ma solo nella tappezzeria più superficiale: il resto sono tavoli, luci soffuse, musica occidentale e fiumi di alcool. La birra più comune del Perù si fabbrica proprio qui, la cerveza Cusqueña, e sembra essere l’unico idolo per una buona parte di peruviani e ospiti stranieri. 



Per le strade è un commercio continuo, tra tiendas di dolci, bevande, empanadas e spiedini (antichucos) a qualsiasi ora del giorno e della notte. Altri personaggi camminano un po’ curvi e quando passano accanto sussurrano “Amigo! Coca, mariuana?” in modo che solo il turista possa sentire e rispondere; ma chi vende ha già intuito il disinteresse dell’altro oppure ha semplicemente sentito l’odore della paura e mentre quello sta rispondendo un timido, “No, gracias”, sta abbordando un altro potenziale cliente e non si cura più del suo didietro.
Tutto il giorno, fino alla sera inoltrata – il lavoro dei mercanti di Cusco non ha orari -  si assiste all’esibizione degli uomini delle agenzie di viaggio, o dei camerieri dei ristoranti o delle massaggiatrici. Ed in mezzo a questo universo di persone che spiano in alto alla ricerca di affari c’è un esercito parallelo di occhi che invece guardano in basso alla ricerca di scarpe sporche: sono i lustrini, che portano con sé una spazzola umida e un supporto di legno dove il piede va a posarsi; sono perlopiù ragazzini, ma non fanno buoni affari e le scarpe sporche scappano via quasi sempre, e senza neanche fermarsi un attimo continuano il frettoloso cammino.

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Luoghi meno familiari ma più sinceri si trovano nella periferia.
L’Associacion Civil “GiordanoLiva” di Cusco è uno di questi posti. Si occupa di un jardin dell’infanzia e di un centro culturale che funziona nel pomeriggio, quando l’asilo è chiuso. Si trova nel barrio di Zarzuela, uno dei quartieri brutti di Cusco, sulle pendici dei colli che circondano la città. Di notte questi quartieri più alti regalano un insolito e straordinario spettacolo di luci, quelle azzurre dei neon negli interni delle case, e quelle arancione dei lampioni: mescolate tra loro trasformano la città in un gigantesco albero di Natale.
L’asilo si trova sulla sommità di una strada in salita ed appare come un piccolo arcobaleno nel bel mezzo di un ambiente altrimenti piuttosto grigio. Le aule, il piccolo cortile sono decorati con disegni coloratissimi realizzati dai volontari in visita, e sono realmente dei motivi di allegria. Si trovano riferimenti alle origini andine dei bimbi oppure delle illustrazioni piene di ispirazione che invitano alla fratellanza, al rispetto delle altre culture e alla preservazione dell’ambiente dai pericoli che lo minacciano. 



In questo periodo i bimbi sono in vacanza ed allora ho potuto fare esperienza solo del progetto pomeridiano. Qui arrivano i ragazzini del quartiere, in età da scuola primaria o secondaria, e vengono un po’ a giocare o a completare i propri compiti (tareas) oppure semplicemente a prendere in giro los professores, Percy, Jordi e Sergio. Le ragazze, Alice, Irene e Laura si occupano, invece, di insegnare ai bimbi dell’asilo  durante la mattina: in questi giorni di pausa si sono riunite nella casa dei volontari, lavorando ad un grande pannello di compensato che servirà ad accogliere le foto dei ragazzi che hanno aiutato l’associazione in questi anni e quelli che lo faranno in futuro. Le ragazze sono molto brave e han dipinto una torre di Pisa con la testa in giù, una immagine di Machu Picchu e poi le cartine di Italia e Perù, per simboleggiare nel modo più immediato questa collaborazione prolifica, questo legame di pace.



Percy è il responsabile della struttura ed è un gran giocherellone e i bambini ne vanno pazzi e gli saltano addosso per farsi strizzare o solleticare, anche solo per farsi prendere in giro. Lavora molto, si sveglia presto e fa tante cose per il progetto. Ogni pomeriggio arriva con un sacco di mele che verranno distribuite ai bimbi come refresco, prima di andare via. In questi giorni di vacanza i bambini si sono distribuiti in due gruppi spontanei, alcuni guardando una pellicula nella stanza grande, gli altri aiutando Sergio e Percy a sistemare le crepe con il silicone, a spazzare via la polvere dai pavimenti di legno, oppure semplicemente sporcano di più.
Un giorno Percy ci ha detto che il venerdì avremmo fatto un’opera di pulizia importante e ci aveva convocato per la mattina. Tutto il lavoro pareva semplice da terminare: spazzare, lavare, passare del petrolio sulle assi di legno per preservarle dai danni dovuti alla polvere. Questo semplice proposito non teneva conto di una porta chiusa che non avevo prima notato. “Sì, beh, oggi svuotiamo il ripostiglio”, ci disse Percy aprendo il vano misterioso.



E si spalancò davanti a noi un universo di oggetti sconosciuti, barattoli di vernice vuoti, palloni, tubi di plastica, vecchi compiti degli studenti e altre cose che non avevano realmente un nome proprio se non quello di spazzatura (bassura). E furono quindici sacchi di immondizia e sei intossicazioni da petrolio o da polvere.
Solo i successivi bicchieri di Pisco Sour*, che Percy preparò per il pranzo, ci impedirono di ripensare all’inganno subito.



*il Pisco Sour è il cocktail peruciano più popolare: è una specie di grappa (il pisco) mescolata al bianco dell’uovo, al limone, allo zucchero e al ghiaccio.

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Un altro mercato molto speciale è il Baratillo (baratto vuol dire economico) e opera solo durante il sabato. Jordi doveva comprare delle calamite per realizzare un piccolo esperimento con i ragazzi, una specie di treno a levitazione magnetica. Io sono andato a comprarci qualche souvenir e per visitare un luogo diverso. Jordi mi aveva avvertito di lasciare a casa ogni valore, il telefono, la macchina fotografica e se possibile anche il passaporto. Ero uscito, allora, solo con alcune banconote che tenevo nascoste e la curiosità di osservarmi intorno. Il mercato era molto grande e a malapena si trovava spazio per camminare.
I magneti che Jordi cercava erano presi dagli altoparlanti vecchi e molti venditori li distribuivano, nascosti tra altre cianfrusaglie e pezzi usati. Anche in questo mercato pareva che le cose fossero ordinate in maniera precisa e la maggior parte dei venditori vicini vendevano cose simili. Così l’abbigliamento era concentrato in due traverse parallele, il cibo in altre ancora. C’erano anche venditori ambulanti tra gli ambulanti, che vendevano zucchero di canna estratto sul momento, oppure spicchi di ananas (piña) oppure churrios, delle specie di saporitissimi biscotti fritti.  Al mercato baratillo ci vanno pochi turisti, perché è lontano e non è noto alla maggior parte degli estranei. La mia contingenza di straniero è stata apprezzata così da molti tipi anonimi, che hanno cercato di salutarmi sfiorandomi le tasche già vuote e rivolgendosi immediatamente alle prime bancarelle per depistare la mia attenzione curiosa e ancora incosciente, la stessa dell’uomo che sente un ronzio nell’orecchio ma non vede la zanzara.



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Cusco è una città abbastanza grande da non potersi muovere a piedi verso questi luoghi più periferici; per raggiungerli, allora, si ricorre ai taxi o ai bus cittadini. Questi ultimi vengono chiamati collectivos e sono delle specie di vecchi furgoncini Volkswagen adattati per l’occasione, nei quali i sedili sono ricavati in maniera miracolosa ed occupano spazi inesistenti. Sulle pareti, sul tetto, sono fissati dei tubi di metallo per permettere a chi sta in piedi di tenersi, anche se di solito chi sta in piedi è costretto a guardare in basso e a poggiare la nuca sul soffitto perché l’ambiente è molto angusto. Se l’autista guida, come capita a quelli che fanno il suo mestiere, c’è un altro impiegato dell’agenzia di trasporto che si occupa di controllare gli ingressi e staziona nelle vicinanze della porta dell’autobus; in genere si tratta di ragazzini di dodici o quindici anni che raccolgono anche i soldi dei biglietti, aprono o chiudono l’accesso e quando sono nelle vicinanze di una fermata, urlano una incomprensibile cantilena di nomi che corrispondono alle zone dove si andrà a parare (ma per fortuna le destinazioni del bus sono scritte anche su un pannello dietro al parabrezza). La stessa fermata del collectivo diventa un momento di nervosismo tangibile e di frenesia ingiustificata. Il ragazzo comincia a gridare “Baja, baja, baja!” invitando la gente a scendere con gesti insofferenti e quando ancora gli ultimi si stanno affrettando a farlo, subito quello ricomincia con la sua litania “Sube, sube, sube!”, o “Adelante, adelante, adelante!”per spingere i nuovi arrivati verso i posti posteriori. L’ultimo passeggero ha appena messo piede a bordo e il ragazzo è ancora sul ciglio della strada quando urla all’autista di ripartire e si aggrappa al volo alle maniglie esterne del bus: con la porta ancora aperta, il corpo in equilibrio e la faccia al vento, il ragazzo si nutre di un momentaneo delirio di onnipotenza.



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Machu Picchu



Ci sono posti facili da raggiungere e altri che non lo sono affatto. Ci sono però anche dei luoghi speciali che sono entrambe le cose. Machu Picchu è un santuario inca, il luogo probabilmente più visitato del Sud America: rappresenta la meta obbligata della maggior parte dei turisti e di altri speciali personaggi che fondano la propria vita sul misticismo e credono che le pietre del tempio possiedano dei poteri e un carico di energia spirituale.
La maggior parte di questi visitatori sfrutta una cammino diretto, da Cusco, viaggiando in treni rapidi che tagliano le montagne e arrivano in poco più di tre ore nel paesino di Aguas Calientes, l’ultimo rifugio prima di tentare la salita (tentare la salita in un comodo bus) verso la cima della montagna su cui si ergono le famose rovine.
Ma la Bibbia, come sapete, dice che non sempre la strada più breve è anche quella migliore (e la Bibbia nemmeno fa riferimento alle tariffe dei vari cammini che sarebbe poi un altro parametro, più moderno, di valutazione) e dunque altri viaggiatori più volenterosi si avventurano lungo una via certamente più tortuosa, ma anche molto spettacolare. Questa seconda rotta fa un giro largo dietro le montagne e sfrutta l’azione inconsulta dei piloti di autobus che si muovono spericolati in mezzo a questi tornanti non ancora asfaltati e ne sfiorano l’orlo senza barriere immediatamente prima del precipizio. Il tragitto dura circa sette ore e termina nelle vicinanze di una centrale idroelettrica. 


Da qui si procede a piedi (o con un tram che passa una sola volta al giorno) costeggiando una vecchia ferrovia e un piccolo fiume. La vegetazione è molto più varia in questa zona, principalmente perché l’altitudine è più bassa (circa duemila e cinquecento metri contro i tremila e cinquecento di Cusco) e si vedono già degli esemplari da selva amazzonica, delle piante a foglie larghe, dei piccoli banani. La passeggiata è molto bella e aiuta a dimenticare gli autobus e i treni e tutto il resto, almeno fino ad Aguas Calientes, dove tutto ciò che si era perso si ritrova e le due strade così diverse si ricongiungono: da quel momento tutti gli uomini diventano uguali, vanno a dormire in albergo e aspettano l’alba del giorno dopo, quando insieme percorreranno lo stesso arduo sentiero fino alla cima irraggiungibile.
Lì troveranno Machu Picchu, dove ho scattato trenta foto tutte uguali, pensando sempre di trovarmi di fronte al posto più fotogenico del mondo.

Ma davvero volete che vi parli di Machu Picchu?



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lunedì 6 agosto 2012

Octavo


Finzioni


Esiste nella regione di Puño un paesino di nome Lampa, che vive di copie e ricorsi. 
Appare come tutti i piccoli pueblos del sud peruviano, con case basse, una piazza principale e le strade di cemento polverose e deserte nell’ora della siesta. La chiesa e il municipio danno sulla piazza, l’una di fronte all’altro e si guardano complici, collaborando per il bene comune e soprattutto per il proprio.
La chiesa è dedicata a Santiago Apostol (San Giacomo), il patrono di Spagna, e subito rivela dei dettagli del tutto peculiari che invitano a ad avere consapevolezza di non trovarsi in un luogo comune. E’ un edificio molto grande, del tutto sproporzionato rispetto alla minutezza del paesino e ha le mura fatte di pietra e le tegole verdi e gialle che ricordano le foglie in Autunno.
“Sai”, mi spiegava Manuel, “Questo pueblo vive di rendita, delle megalomanie del dueño (il domino) che ha abitato qui nella prima metà del secolo scorso.  Enrique Torres Bélon, questo il suo nome, era un ingeniero de minas e già molto ricco prese a viaggiare e occupare cariche politiche, fino a diventare Senatore a Lima. Lampa è stato il suo paese di nascita e il potere e la ricchezza hanno fatto di lui il padrone di tutto, al di là delle cariche e delle sue proprietà. I suoi viaggi e la cultura molto grande avevano prodotto in lui un effetto particolare di smisurata ambizione e così aveva cominciato a mandar via denaro per richiamare artisti e materiali da luoghi lontani.



Fece arrivare del marmo da Carrara che andò a costituire il pavimento della chiesa, poi cominciò a tappezzare l’interno dei propri ricordi, resi solidi da scultori ben pagati (ad esempio una bruttissima Ultima cena di statue di marmo). Uno di questi artisti realizzò la più perfetta copia della pietà di Michelangelo (qui lo chiamano Miguel Angel), tanto buona da venire quasi riportata a Roma, in seguito all’attentato che l’opera originale subì negli anni cinquanta per mano di un folle. In Vaticano pensavano di offrire al pubblico solo la visione della copia, per preservare l’originale da altri pericoli, ma Bélon disse no, e la pietà non si mosse da dove stava. Almeno fin quando a Bélon capitò di morire.
Aveva infatti predisposto per sé un sepolcro che richiamasse alla memoria quello di Napoleone a Les Invalides: una bara sepolta in una camera capiente e vuota, con decorazioni dorate e un baldacchino di sostegno. Sulla sommità della bara sta proprio quella Pietà di Miguel Angel che volevano rapire; sulle pareti della stanza i teschi di tutti i lavoratori coinvolti nella costruzione di questo mausoleo moderno e con orbite vuote spiano verso il centro."
Lampa pare proprio questo luogo, dove gli specchi riflettono le buone intenzioni e le trasformano in orrore.

***


“Io sono stato un anno a Lampa”, mi raccontava Padre Manuel, “Avevano appena costruito il carcere della città e vi avevano messo i criminali più pericolosi del paese, i terroristi del Sentero Luminoso. La gente del pueblo si era infastidita, si sentiva come offesa e aveva preso a protestare molto per questa scelta. Poi però il prete del paese cominciò a celebrare frequenti messe nel carcere e fece passare la processione della festa proprio da lì: in un primo momento le persone erano molto contrariate e litigavano col prete perché pensavano di subire un torto ulteriore; d’altro canto gli abitanti di queste zone sono religiosi fino al fanatismo e così misero da parte le proprie riserve e seguitarono ad andare a messa, sia pure nel carcere.  Dopo un po’ le cose si normalizzarono e nessuno pensò più alla prigione.
Qualcuno in realtà ci badava ancora, in un rapporto, se possibile, più diretto: quella di Lampa era infatti una zona molto legata al commercio e alla produzione di cocaina. I narcotrafficanti andavano e venivano dalla selva,  ma vivevano nel paesino come se niente fosse, più o meno nascosti alle autorità. Uno di questi era molto legato alla chiesa e ogni domenica partecipava alla messa e scambiava due chiacchiere con il curato e con noi giovani che eravamo appena usciti dal seminario. Qualche anno dopo venni a sapere dalla televisione che era stato ammazzato dalla polizia durante uno scontro e ne ebbi molta pena pur sapendo che era un criminale anche lui.


 Un giorno mi aveva chiesto, timidamente, di andare nella sua habitacìon a benedire la foto di sua madre, morta da qualche anno. Stava molto preoccupato, nella sua latitanza, di non poterne visitare la tomba o santificarne la memoria. Pensava che la benedizione fosse almeno un’azione riparatoria.
Io guardai il parroco titolare come a chiedergli il permesso, mentre quello fece un cenno bonario con il capo e sembrava sorridere. Allora mi accompagnò alla sua stanza che stava buia sulla cima di una rampa di scale: fece strada e spalancò la porta per il mio ingresso e con un cenno mi invitò ad entrare.  All’interno, tutte le pareti erano piene di pornografia, del livello più basso e sconcio. Il cura chiaramente lo sapeva già e mi aveva mandato proprio per ridersela con gli altri.
Io ancora un po’ intontito mi guardavo intorno scrutando le donne e senza pensarci troppo, con un’aria abbastanza distratta e superficiale mi volsi verso il figlio in attesa e dissi sbrigativo: “Y entonses, quale de estas es su mama?”

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 Il freddo è finalmente calato, qualche piccola goccia di pioggia ha cominciato a bagnare la terra secca del sud andino e sempre più frequentemente nubi grigie si sono affacciate sull’altipiano.
Lampa è stata l’ultima gita prima di lasciare Caracoto. Il tempo ha fatto il suo dovere ed è passato con le conseguenze del caso, riempiendo di tristezza e ineluttabilità i saluti agli amici. L’adios peruviano aveva il sapore del nostro addio e tutti i buoni propositi del mondo non potranno calmare i dubbi di questa specie di profezia.
Viaggiando verso Cusco ancora campi asciutti e animali al pascolo: anche le pecore, ormai scolorite, dicevano che era davvero arrivato il tempo di partire e che non dovevo rattristarmene. E lasciavano capire che in fondo tutto ha un termine per avere un nuovo inizio, e nuove cose attendono le nostre vite e nuove persone aspettano di essere incontrate e che il presente è più importante del passato e di tutti i futuri.
“Che idiozia”, pensavo rivolto a queste pecore stupide e vanitose, “ma non è meglio se vi fate gli affari vostri?”.


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domenica 29 luglio 2012

Séptimo


Arequipa



C’è una città molto grande ad Ovest di Puño che si chiama Arequipa.
Sono partito da Caracoto lunedì, nel pomeriggio. Il posto non era molto lontano (almeno se si fa riferimento alle distanze tipiche di un paese vasto come il Perù) e l’autobus era un buon trasporto. Si muoveva su una strada molto bella anche se tipicamente desertica, ma piena di scorci e qualche accenno ad una natura differente dai semplici sassi. Dovevo arrivare ad Arequipa dopo le sette, perché nei miei programmi era di dormire da un amico di Padre Manuel, un altro curato, ma meno missionario rispetto alle mie ultime illuminate conoscenze.
Padre René, mi aveva spiegato Manuel, è mezzo francese: ha vissuto molto in Francia anche se nato in Perù, ed ora vive ad Arequipa che è la seconda città del Perù e come tale molto caotica. Dovevo raggiungerlo nel suo appartamento in piano centro, dovevo mettermi d’accordo per telefono con la sua perpetua, la señora Magda, e avvisarla del mio arrivo, poi dovevo prendere un taxi.
La telefonata e il taxi sono stati momenti importanti del mio viaggio, un po’ come varcare una porta socchiusa con l’incoscienza di ciò che vi avrei trovato.
Non è difficile telefonare in Perù: ogni angolo di qualsiasi minuscolo pueblo di qualsiasi sperduta regione possiede una bottega che vende telefonate. Si chiamano locutorios e sono segnalati da un grosso cartellone verticale, colorato nello sfondo con delle lettere blu molto grandi in primo piano. Anche la stazione dei bus ne aveva parecchi, e sono entrato nel primo che aveva il prezzo esposto. “Señora Magda, soy l’amigo de Manuel. He illegado aqui, in Arequipa y ahora tomo el primero taxi para la casa”, le avevo detto un po’ meccanicamente, recitando male il discorso che mi ero appena preparato. Poi uscì per cercare il mezzo.



La diffidenza è una brutta compagna di viaggio e appena usciti fuori dalla stazione, rimasti soli l’uno accanto all’altra, mi raccontava cose orribili in un soliloquio di vecchie raccomandazioni che stavano registrate da qualche parte nella mia testa. Mi parlava dei tassisti che bloccavano la macchina, ti rapinavano e ti lasciavano al bordo della strada, ma non era certo un problema primario. Però mi faceva spavento, e mi faceva voltare a destra e a sinistra, di scatto e senza tranquillità, mi diceva che potevano prendermi da dietro con un coltello e per darsi tono mi raccontava di quell’altro volontario che due anni fa, “…e lui parlava bene lo spagnolo, non come te che sei peggio di un lama, era andato in giro solo a Juliaca, vicino al mercato e lo avevano capito che era uno straniero, lo avevano minacciato con un coltello e lasciato dei tagli sulle mani.”. Mi aveva anche detto una cosa strana e ne avevo riflettuto, cioè che io rappresentavo quello che gli altri non avevano, e in alcuni casi il motivo stesso per cui non potevano averlo.
Tutto questo mi metteva a disagio, così decisi di salutare la mia accompagnatrice e di non dividere con lei la spesa del viaggio. Fermai vari taxi, ma solo il terzo accettò di accompagnarmi, mentre gli altri due mi avevano guardato con la pietà per l’uomo carico di sventura e avevano scosso la testa, adducendo motivazioni risibili come il traffico e l’ora difficile. Il terzo mi aveva guardato fisso e aveva anche parlato del traffico, ma nei suo i occhi si vedeva di riflesso il mio aspetto da gallinaceo europeo, così mi disse, “Uhm…  Calle Pizzarro con Victor Lira… Hay mucha conjestion… Està bien ocho soles?”.
Così, ho imparato, si spenna un pollo.

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Manuel mi aveva parlato poco di Padre René, in compenso mi aveva descritto un altro personaggio molto interessante: “Sai, qui a Juliaca abbiamo un altro tipo particolare. E’ anche lui francese, però vive in Perù da tanti anni, credo da venti o trenta. Sai, è la persona più radicale che conosca. Non è un prete, ma frequenta l’ambiente della chiesa da molto tempo e sta sempre con i poveri e gli ubriachi, parla con loro, mangia, beve e pure dorme con loro, sulle strade all’aperto. Sta lì accanto e fa attenzione che non si feriscano, che non bevano troppo. E’ davvero un brav’uomo, però è difficile avere dei rapporti normali perché nel suo estremismo spesso si comporta in maniera strana. Sostiene che bisogna vivere come i poveri e non avere abitudini differenti, perché è irrispettoso. Forse non è neanche una mancanza di rispetto per lui, quanto una forma di illogicità. E’ sempre piacevole conversarci, però è anche capitato, a volte, che venisse a trovarci in parrocchia con il suo gruppo di ubriachi, che si mettono a gridare, a cantare e a rompere e rubare le cose. Allora li abbiamo scacciati e lui non mi ha parlato per un anno. Aveva anche una moglie e una figlia che l’hanno lasciato per lo stesso motivo, stanche di questa forma di follia. Un giorno, poi, è scomparso per sei mesi, che noi pensavamo fosse morto di freddo in qualche angolo, dietro qualche albero. Quando è tornato, non si è fatto problemi di sorta ed è ripassato dalla parrocchia a mangiare e a rimproverarmi che non si poteva mangiare così tanto, che era una cosa immorale, che i poveri non hanno da mangiare.
In fondo gli vogliamo tutti bene, perché è un uomo buono. Una volta ci siamo spaventati a morte, anche più di quando è scomparso: lo abbiamo visto dalla strada, il corpo disteso al bordo della ferrovia, di fianco ad un altro corpo morto. Sembrava immobile e pensavamo che fosse davvero morto, forse rapinato e colpito. Ci siamo avvicinati e con sorpresa abbiamo visto che non solo era vivo e sveglio, ma stava anche parlando con l’altro uomo, che era invece ubriaco marcio. ‘Sai, Manuel’, mi disse, ‘E’ troppo importante avere rispetto per gli altri e bisogna avere cura di parlare di pari grado, guardandosi negli occhi.’ Capisci? E’ per questo che stava disteso, per poter avere l’occasione di parlare con l’altro, di spiegargli che bere molto fa male, ma sempre guardandolo con gli occhi alla stessa altezza.”



Padre René era francese, ma in un modo diverso. Aveva la pelle scura, ma quasi come fosse molto abbronzata, perché il sole di Arequipa non è così forte come a Puño e non macchia la pelle. Aveva però un aspetto un po’ particolare che lo faceva assomigliare ad un topo, per via di un naso all’insù e delle orecchie sproporzionate rispetto al corpo molto minuto. A questo aggiungeva dei capelli radi tenuti all’indietro con una specie di brillantina e degli occhialetti molto piccoli. Aveva anche dei movimenti nervosi e sebbene fosse molto gentile non riusciva ad essere accogliente, in un certo senso.
Parlava anche un po’ di italiano, ma non bene e da parte mia rispondevo sempre in spagnolo, un po’ per esercizio, un po’ per abitudine o educazione. Però è difficile pensare che fossero forme di reale comunicazione, anche perché Padre René ascoltava poco di quello che gli si diceva, molto preso da pensieri trasversali che uscivano irruenti e acuti per mezzo della sua voce, e cambiavano sempre argomento: erano nuove domande private del minimo interesse o delle storielle che facevano capo solo al filo dei suoi ragionamenti.


Il primo giorno, mentre stavamo pranzando, mi mostrava il suo cane vestito da supereroe, giallo e rosso. “E’ un gringo peruviano”, mi spiegava accarezzandolo e subito scacciandolo via a calci, “E’ un gringo negro”, continuava ridendo, ma io non capivo bene: “Ma perché è vestito?”, chiesi.
“Si brucia col sole”, mi disse scoprendo la parte di pelle coperta, ed effettivamente sembrava tenere un’abbronzatura da muratore, ma senza aver dovuto faticare molto.
“Sai, c’è una storiella che raccontano qui…”, aveva proseguito, “Si dice che all’inizio del tempo in Perù esistevano solo uomini bianchi. Un giorno però successe che uno di questi, ubriaco, si rivolse al diavolo cominciando a prenderlo a spintoni e riempiendolo di insulti. Il diavolo, che era insolitamente paziente, non poté resistere a lungo e all’improvviso si volse verso l’altro con le braccia alzate, le mosse di scatto con un gesto violento e puff! Il bianco era stato bruciato, ed era ora tutto nero. Questo per spiegare l’origine de los negros. Ma sai, questa è una storiella racista, che qui raccontano spesso. E’ molto vecchia”.

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Non è però l’unica storiella che si racconta in queste zone leggendarie, dove il mito e la storia si fondono in una lega inestricabile di racconti tramandati ed evidenze archeologiche.
Arequipa è il contenitore ideale di queste leggende, situata in una valle circondata da vulcani millenari. Sono quattro o cinque vulcani sopra i seimila metri e salutano ogni mattino ben prima del resto della città: hanno in cima la neve perenne e sono così grandi da apparire sempre vicini e lontani. Il più vicino è El Misti, ha la forma di un cono perfetto e sovrasta il piano della città, ma non ne affetta il clima che rimane mite e tiepido per tutto l’anno. Le case sono piccole e gli abitanti sono moltissimi, tre milioni, dieci milioni o meno di un milione a seconda di quello che ti vuole raccontare chi te ne parla. E’ una distesa sterminata di abitazioni, con il vulcano che fa da guardiano, con l’aspetto sornione e la punta bianca. Tutta Arequipa è bianca, la chiamano La ciudad blanca perché le case sono fatte di Sillar, una pietra vulcanica di colore chiarissimo. Il centro è il nucleo abbagliante di questa distesa luminosa e si offre a molti turisti che ne visitano la cattedrale o le chiese più piccole. Vicino c’è un antico monastero dell’epoca della Conquista spagnola, nel 1580, ed è dedicato a Santa Caterina (Santa Catalina). Per secoli è stato il luogo di raccoglimento (ma non propriamente di preghiera) delle non primogenite dalle famiglie più ricche di Spagna. Per secoli le novizie hanno fatto voto di non povertà e perpetuavano la stessa viziosissima vita che portavano avanti prima dei voti. Tenevano schiave e amanti, e si divertivano in feste e orge spensierate. Questo idillio ebbe termine per opera congiunta di Papa Pio IX e una terribile suora domenicana, che costrinse le altre sorelle a muoversi più decisamente verso la dottrina e liberò la quantità di schiavi al loro servizio.



Il monastero è una piccola città nella città, un gioiello molto ben conservato che ha subito laboriosi restauri a causa dei frequenti terremoti che hanno imperversato nella zona negli ultimi secoli: si tratta naturalmente di sismi legati all’attività vulcanica, ma tutto il Perù è vittima di eventi di questo genere e ha ormai imparato, suo malgrado, a conviverci. Ed è anche per questo che le case sono normalmente molto basse e sembrano costruite con poco impegno.
Altri vulcani si trovano un po’ più lontano e si abbracciano in una valle molto famosa, chiamata Valle del Colca. Si tratta di un a lunghissima gola stretta tra le morse dei vulcani Coropuna e Ampato, entrambi sopra i seimila metri. Il punto più basso registra un dislivello di più di tremila metri e rende questa valle il canyon più profondo del mondo. La valle intera ospita numerosi paesini di origine Incas, poi deviati in seguito alla conquista spagnola. Dove ora ci sono le chiese, si racconta ci fossero templi dorati e culture ancora fiorenti. Ogni nome nasconde questa origine e fa riferimento ad antiche parole ormai perdute che richiamano a qualche particolare caratteristica del luogo, quello che apre la porta al vento,  quello che vende il mais, quello degli animali senza corna.



Gli animali con le corna non abitano più queste zone. Si tramanda che una strega attraversò la valle fermandosi nel pueblo di Coporaque e lì incontrò due giovani fratelli. Uno di questi era buono e gentile, mentre  l’altro era avido di ricchezza e desideroso di potere. La strega ascoltò da questi che la terra era arida e il bestiame era magro, e si viveva male. Allora la strega donò loro dei fiori e disse di piantarli al bordo delle loro proprietà, disse che era un dono di fertilità e che le cose sarebbero andate meglio. La strega se ne andò lasciando ai due l’arbitrio della propria sorte. Il giovane buono ascoltò i consigli della vecchia e le sue colture e il suo bestiame presero a diventare floridi nello spazio di un mattino. Il secondo fratello fu invece vittima della propria vanità non credendo alla strega. Prese i suoi fiori e li pose ai lati del sombrero per farsi ammirare dalle donne l’indomani ed essere salutato con più rispetto. Si addormentò con questa speranza, ma si risveglio con delle lunghissime corna, proprio dove stavano i fiori. E fu talmente preso dalla vergogna che scappò dal paese di nascosto e senza tornarci mai più, e si rifugiò su quelle montagne dove ancora oggi vivono i lama cornuti.



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I vulcani erano dei luoghi mistici per gli Incas. Calamità frequenti, siccità, carestie o terremoti li spingevano a riti propiziatori basati su sacrifici umani: nell’occasione non desiderata la cima del vulcano era il luogo più importante perché più vicino agli dei. Lunghe processioni accompagnavano un ristretto gruppo selezionato di sacerdoti e di vittime designate verso la sommità del monte. Prima dell’ultima scalata la processione si fermava in attesa e il piccolo gruppetto continuava l’ascesa. Gli agnelli di dio erano scelti tra i migliori esemplari che le città dell’impero mettevano a disposizione: i più belli, le più belle, i più intelligenti. Fin dall’inizio lasciavano le proprie case per venire educati in vista della possibile cerimonia.
Qui i bimbi erano storditi con della birra drogata e uccisi con un colpo di bastone. Poi venivano sistemati in posizione fetale, perché così l’anima poteva avere migliore occasione di rinascere e infine venivano calati in un piccolo pozzo, circondati da statuette e altri oggetti votivi. Circa venti anni fa una di queste cave è stata scoperta sotto i ghiacci più antichi e ha rivelato un corpo perfettamente conservato, nei suoi organi, nella pelle esterna, nel terribile sguardo vacuo e nel pallore di mummia che il gelo aveva permesso. La chiamano Juanita, dal nome del suo scopritore, e ora riposa in pace in un frigorifero trasparente, nella stanza più buia di un museo tetro di Arequipa. Riposa in pace, mentre tutti la guardano.



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Festa patria*



Piove sulla nazione in festa.
Lava via i peccati di tutti, e tutti guardano al cielo implorando pietà. Perché il Perù va amato, e tutti si amano e sono contenti di sfilare, di marciare sotto la pioggia. Il suo presidente è basso, cammina goffo verso la grande cattedrale di Lima e lo attendono vescovi, cardinali e ministri in un inestricabile conflitto di poteri secolari. Piove sulla cattedrale e lava meglio, perché è più sporco.
Piove sui sagrati delle altre chiese che celebrano ovunque per la festa di tutti. Le strade sembrano più pulite e la polvere rimane in terra. Le coccarde, le bandiere e le spille sono bianche e rosse e umide in un cielo plumbeo che minaccia giudizio e terribili profezie. Ma è una giornata di festa e la pioggia non rovina, non guasta e tutti saranno felici lo stesso e non hanno paura che la birra si annacqui. Oggi il presidente parlerà, e dirà di quello che ha fatto in un anno e tacerà di quello che avrebbe dovuto fare. Ma nulla potrà distrarre e nessuno si occuperà di null’altro che dell’amato Perù, perché esso va amato come il migliore dei figli, come il più bello. E la festa non può essere sacrificata in vece della normale vita quotidiana, e se i servizi devono funzionare che almeno li paghino di più, e così tutto costa il doppio perché il lavoro logora le feste e le uccide di noia.
La pioggia e le nuvole scure, invece, non possono rovinare nulla perché Dio le vuole: Dio festeggia col Perù e manda la pioggia come schiuma di spumante che cade giù dal cielo, e anche lui è felice e canta l’inno con gli altri.
Piove sulle marce militari, di soldati e scolari, e piove sulla sfilata dei professori che hanno sospeso lo sciopero per l’amata patria. Sfilano a braccetto e mantengono il viso serio, perché quando la festa finirà riprenderanno a colpirsi coi sassi e a combattere la personale guerra fratricida, sul suolo dell’amato Perù.
Piove sull’acqua avvelenata e sulle miniere di oro e tutto ossida e niente purifica. Perché il Perù va amato di più quando è preoccupato, quando la terra stessa ne soffre. A Calamanca piove senza soluzione, ma il paese è in festa e non importa e la giornata è speciale. Domani ci penseranno, domani ci penseremo, ma non oggi.
Oggi piove su tutto e su tutti nella festa di ciascuno, pulisce via i peccati almeno fino a domani, quando tutti si accorgeranno di avere i vestiti ancora sporchi e che le macchie non si son lavate via.



*Il 28 Luglio è la festa nazionale del Perù che in quel giorno del 1821 è diventato uno stato indipendente.


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domenica 22 luglio 2012

Sexto


La capanna dello zio Manuel


“Anche in queste terre dimenticate abbiamo avuto un criminale nazista.
Era un tedesco apparso verso la fine degli anni sessanta, probabilmente spinto fino alle Ande da qualche rischio di denuncia. Era alto, biondo e con la pelle bianca: tanto chiara come chiaro era il fatto che fosse un uomo in fuga e non aveva nulla da condividere con i mulatti della zona.
Si sistemò in un campo, qui vicino, nei pressi di Juliaca. Si sistemò, con del buon denaro, e prese per sposa una contadina del pueblo. Non si può dire si fosse ambientato , anzi era sempre un po’ fuori posto, però sopravviveva e con molta circospezione e prudenza. Ma tutti sapevano che era un nazista.
Non passava mai per la città grande, aveva paura di denunce e arresti: i tedeschi che sono venuti qui in Sud America avevano tutti un passaporto falso, sono arrivati come olandesi o austriaci, con nomi sempre nuovi che quasi non si ricordano quelli vecchi. Ogni tanto trascorreva del tempo in una bottega del pueblo e rimaneva a bere e a giocare a carte e discuteva di calcio e di politica.
Veniva a messa ogni domenica, ma non poteva sopportare i discorsi del nostro gruppo di preti. Noi eravamo un gruppo progressista e parlavamo dell’uguaglianza sociale, contro le guerre, le discriminazioni. Non poteva sopportarci. Una volta io e altri tre preti siamo capitati in una taverna dopo la messa, e c’era anche lui. Disse, ‘Io non posso mangiare guardando in faccia dei preti comunisti’ e si alzò, sputando per terra.
‘Noi siamo preti comunisti e tu sei un nazi: puoi continuare a mangiare tranquillo!’, risposi.
Quello si mangiò la lingua e si guardò intorno spaventato, sudava come in preda alla febbre. Rimase in silenzio tutto il tempo, guardandoci di continuo e di nascosto. Qualche giorno dopo ho avuto occasione di parlargli e gli spiegai molto chiaramente cosa stava succedendo.
‘Uno dei preti dell’altra domenica si chiama Don Lucho e tu non lo sai. Fa parte di un gruppo di uomini che cercano i criminali nazisti in Sud America e ogni settimana si riuniscono per darsi nuove informazioni. Lui non ti ha mai denunciato. Se quelli ti trovano, ti ammazzano.’
Lui mi guardava serio e non avevo bisogno di aggiungere altro. Sono molti anni che non ho più sue notizie e credo che ormai sia morto: quelli come lui sono più che novantenni se son vivi.
Don Lucho, invece, era un prete ebreo. Era stato in un campo di concentramento con un altro suo amico seminarista. Non so perché li avessero presi, di solito i preti non li toccavano. Il suo amico era morto dopo un anno, mentre lui sopravvisse fino alla liberazione. Dormivano nello stesso letto e quando l’amico morì, Lucho  non poteva sopportare l’idea che quelli prendessero il corpo e lo bruciassero, e allora non disse nulla. Per una settimana dormì di fianco al cadavere in silenzio e senza rivelarlo, poi quando entrò in putrefazione non poté far nulla per nasconderlo e glielo portarono via.”
Io avevo ascoltato tutto il racconto senza obiezioni, ma non capivo bene. C’era qualcosa che non mi tornava, mi sembrava che non tutto seguisse la logica più semplice e percepivo un certo disordine in tutta la faccenda.
“Sì, ma perché nessuno l’ha denunciato?” dissi con timidezza e forse questa titubanza era una reazione inconsciamente protettiva, che voleva mettermi al riparo da tutte le tremende contraddizioni che avrebbero seguito la  sua risposta.
 “Claro, porque si no lo iban a matar”, mi disse con molta umanità.

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Un’altra volta era un sabato e stavamo pranzando in parrocchia con un giovane del pueblo che andava ad abitare in un altro paesino.
“E così te ne vai in miniera…”, Manuel era sempre abbastanza aspro quando parlava di miniere.
“Sì, Padre” disse quello, come però a dire che non poteva farci nulla, ed era un destino già deciso  d’accordo con la propria povertà.
“Deve far freddo lì, quanti metri sono?”
“Padre siamo sopra i quattromila”
“Si, ma andate sottoterra, deve fare mucho frio lì sotto”
“E’ molto buio”
“Eppure sono curioso di vedere una di queste miniere, una volta ci sono passato accanto con il carro, ero con un amico e non capivo cosa fosse tutta quella sabbia ammucchiata; c’era un  ingresso quasi verticale, come un pozzo. Mi ha detto, ‘es una mina’, e poi mi indicava il piccolo pueblo che era da poco sorto lì accanto. Era pieno di ubriachi. Sarà davvero molto freddo lassù.”
“Padre, tutto il giorno stiamo con un passamontagna per le correnti d’aria, sono terribili”
“E poi mi immagino che sia pieno di putas.”
“Moltissime, Padre. Fa davvero molto freddo lì. Quando uno è in pausa o e ubriaco, va in cerca della puta e si fa portare a letto (cama).”
“E devi sapere”, disse Manuel rivolto a me, “che queste sono tutte chicas, tutte ragazzine. A volte le mandano gli stessi genitori, per far soldi. E’ davvero una cosa tremenda: passando con il carro, quel giorno, abbiamo visto anche di queste. E stavano mezze nude con un freddo della malora, avanti e indietro dalla mina, e in tutte le ore del giorno. E quella era una miniera piccola, non voglio pensare a cosa può succedere a Puerto Maldonado, là sì che è enorme”
Il minatore annuiva e guardava il piatto, ogni tanto portava un boccone di riso alla bocca. Non poteva risolversi a dire nulla, vittima e osservatore critico dello stesso terribile traffico.
“Tu ci vai per l’oro?”, chiese a bruciapelo Manuel.
“No, padre, io prendo lo stipendio nella settimana, e poi torno qui da mia moglie”
Manuel sembrava paternamente felice di questa risposta, e la conversazione diventò un po’ più leggera, arricchita di qualche aneddoto.
“Sai, una volta ero andato nella casa di due parrocchiani, per alcune faccende di burocrazie. Erano sposi novelli e ancora vivevano contenti. Come te, stavano per trasferirsi in uno di questi paesini di minatori. Lui in verità non lavorava nella mina, ma in un posto vicino dove teneva un’officina meccanica. La moglie invece passava il tempo in una di queste ‘botteghe’ di putas. Io  rimasi incredulo e subito chiesi al marito, ‘Pero tu saves que tu esposa es puta?’ dissi. Quello mi guardò bonariamente, senza cattiveria o risentimento e si strinse nelle spalle. La moglie invece rise, ‘No padre, no soy puta, soy dama de compañìa’. Io stavo a guardarla, muto. ‘Ya, Padre, soy dama de compañìa, no voy a la cama con los mineros”, e mi spiegò che il suo lavoro consisteva nel sedersi al tavolo dei minatori e istigarli a bere fino ad ubriacarsi, prepararli per le putas in un certo senso. ‘Dama di compagnia o puta’, pensavo: in fondo a me pareva la stessa cosa. E poi il marito?Bah…es realmente una barbaridad



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Il lago Titicaca e Rio de Janeiro



Vi raccontano che il lago Titicaca è il lago più alto del mondo, ed è vero. Non vi dicono, però, che è grande quanto il Belgio e ci sono punti in cui l’orizzonte è troppo vicino e l’altra sponda troppo lontana, perché lo sguardo possa raggiungere l’altro lato. Ci sono posti in cui si vedono delle isole da lontano, alcune hanno degli alberghi lussuosi da trecento dollari a notte, altre sono sconosciute a chiunque e forse qualcuno ci vive pure. La barche si muovono da tanti porti, da Puno, da Copacabana, da Ccotos e da decine di piccoli moli sparsi sulla costa. Percorrono rotte turistiche, nelle prime ore della mattina e poi tornano prima che cali il sole perché spesso il vento è criminale. Sono naturalmente barconi a motore, per trasportare e lasciar vedere intorno, delle piccole vedette panoramiche, ma il sole è spesso accecante e riflette sull’acqua o sulla barca e rende tutto fosco e indistinguibile. Ci sono barchette a vela che approfittano della benedizione del vento e filano via senza motore e senza indugi, e superano altri tipi di imbarcazioni più antiche e più pure. Sono le armi bianche del mare, che fendono l’acqua a colpi di remi e pagaie, kayak e tradizionali imbarcazioni di bambù: gli scafi riempiti di materiale galleggiante che rimedia ai possibili spiragli tra le giunture.


Il lago è patrimonio dell’umanità, ma nello specifico se lo dividono il Perù e la Bolivia. Ci sono tre isole molto belle nella parte peruviana, le isole Los Uros, Taquili e Amantanì.
Le prime sono un arcipelago di piattaforme galleggianti, le chiamano isole flottanti. Sono molto vicine a Puño e questo migliora le possibilità di visitarle perché le barche partono anche nella tarda mattinata (invece Taquili e Amantanì richiedono una partenza previdente entro le otto della mattina dal porto della città, entro le sei da Caracoto). Si tratta di isolette molto frequentate dal turismo alternativo, anche se Puño è ormai una meta fissa per chi viaggia in Perù. Proprio per questa ragione presenta un’apparenza più accessibile rispetto a Juliaca, ma anche meno interessante. E’ una città abbastanza grande, distesa lungo un’insenatura del lago. Il marrone dei mattoni di creta e l’azzurro metallico dei tetti di lamiera domina il paesaggio, e le case si succedono a raggiera ed in discesa, avvicinandosi all’acqua. Nella collina più alta ci sta una statua di Cristo che apre le braccia come per contenere tutta la città e sembra di trovarsi a Rio de Janeiro tra spiagge e mare, ma è un’illusione passeggera che sparisce dopo la prima curva in discesa.



Il centro è una sorpresa per certi versi deludente: a dispetto di una maggiore tranquillità legata alla presenza di flussi internazionali (le auto sono interdette ad esempio), c’è la caduta della tipica città di mare turistica, con il corso popolato di negozi di souvenir , di fenomeni da baraccone e di scritte in inglese.
Il porticciolo è un’altra camminata simile, e le donne e gli uomini cercano di richiamare l’attenzione dei turisti prima che questi giungano ai posti di vendita ufficiali, e provano sempre a speculare un po’.


I traghetti sono sempre affascinanti e il percorso verso le isole Los Uros è molto tranquillo. La barca passa attraverso una via scavata tra le felci e raggiunge in mezz’ora le prime isolette. Sono piattaforme di terreno e radici che lo trattengono. Ogni complesso è l’unione di cinque o sei di queste vaste basi, tenute insieme tra loro da corde tese, ma tuttavia ancorate al fondo, per non essere anche delle isole vaganti oltre che galleggianti. Sopra il terreno sono  sistemate a strati perpendicolari, linee di bambù che rendono molto soffici le passeggiate. Sulle isole abitano delle famiglie, in case di legno, di paglia e di bambù e vivono di pesca o piuttosto di turismo.  Ogni isola offre artigianato locale (artesania) e gite sulle speciali imbarcazioni della tradizione. Le abitazioni sono alimentate con dei pannelli solari e le cucine sono poste su dei ripiani isolanti, in modo da non incendiare tutto.



Sono molte famiglie nelle varie isolette, e il capofamiglia si rivolge in spagnolo e in inglese e mostra una volta di più la tipica cadenza peruviana nello spiegare  le cose, un’oscillazione molto breve di frasi veloci e parole lente a marcare le puntualizzazioni più ovvie. Nell’ultima isola c’è un ristorante e nuove bancarelle, ma dopo due ore assolate rimane solo l’attesa del ritorno, sotto l’ombra delle tettoie.
(fine prima parte)


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