lunedì 20 agosto 2012

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Ma queste donne peruviane che siedono ai bordi delle strade, a cosa pensano tutto il giorno? Come fanno a sopravvivere all’inedia, al tempo che non passa mai. Sono avvolte da pesanti coperte e paiono solo minimamente indaffarate intrecciando a volte dei maglioni, o strappando la pelle alle pannocchie di mais. Forse pensano che in fondo non abbia senso affannarsi a vivere vite frenetiche, spinti da bisogni costruiti e da esigenze secondarie, in un patto a perdere con la propria ambizione. In fondo, magari, il mondo peruviano non è così diverso da quello occidentale, e in fondo i giovani peruviani cercano solo di inseguire quello che per loro è il sogno occidentale (e pian piano ci si avvicinano pure, a partire dalla Coca Cola Company, che qui distribuisce anche l’acqua da bere, oppure i vari fast food che mettono radici e avvelenano ogni tradizione).
Le donne di prima, non hanno coscienza che esiste a Lima un quartiere come Miraflores, fatto di strade larghe e pulite,alti condomìni con giardino e macchine preziose. Ci sono molti locali, ristoranti e casinò e tutto costa come in Europa, quando a dieci chilometri di distanza le persone vivono in delle specie di baraccopoli. Forse si può dire che è un bene che ci siano posti in Perù più agiati, dove le persone possono vivere seguendo i canoni di benessere che seguiamo in occidente, però non sarebbe stato meglio di fare dei passi più piccoli tutti insieme, invece di alimentare questo squilibrio agghiacciante?
Quello che ora avviene in paesi come il Perù è una predestinazione delle possibilità del singolo individuo. Se un ragazzo nasce a Lima può virtualmente fare quello che vuole (almeno in Sud America), ma se nasce a Juliaca ha già un futuro segnato, e sarà un meccanico, un contadino, un tassista o se più fortunato sarà un ingegnere poche centinaia di chilometri più a nord.
Allora lavoriamo sull’educazione, perché l’istruzione è ciò che può rendere gli individui liberi di autodeterminarsi. Questo è un punto delicato, perché le scuole e le università sono figlie dei contesti, e non c’è molto da scandalizzarsi a pensare che a Lima si concentreranno professori bravi e a Puño dei gruppi di ubriaconi impreparati. E d’altronde, se davvero esistesse questa capacità di autodeterminarsi per tutti gli individui, chi potrebbe scegliere spontaneamente la miseria per il proprio destino (o in altra forma, chi andrebbe a coltivare campi, chi sceglierebbe di vivere in un Apecar tutto il giorno, tutti i giorni, facendo il tassista).
Però  la libertà di costruire il proprio futuro non significa garantire la sicurezza di riuscire, ma solo l’offerta di una possibilità uguale per tutti. Forse questo è il miglior punto di vista, anche se implica una ciclica gara di sopravvivenza, nella quale gli uomini competono per occupare i posti migliori: un ricorso alle tendenze precedenti ai patti sociali; ci ritroviamo dopo millenni con delle prove innegabili di eccezionali capacità tecnologiche e contemporaneamente non riusciamo a superare questi limiti, forse istintivi. Il concetto di bene comune passa per la soddisfazione primaria del bene del singolo: nella nostra cultura non può essere altrimenti, ma ho il dubbio che le scelte del Sud America siano profondamente condizionate da spinte esterne che seguono i miti occidentali: io non demonizzo la televisione, ma qui pare avere un ruolo di reale formazione delle idee e delle aspirazioni e davvero sembra influenzare la vita delle persone.
Chi lavora per creare alternative a questa visione non può essere troppo radicale, e allora timidamente si prodiga ad inventare piccole realtà costruttive in comunità terribilmente mutilate. Tutti i promotori dei progetti di volontariato, tutti i volontari fanno un’opera di meravigliosa responsabilità solidale, ma sono sforzi intrisi di una specie di masochismo: è come curare una rosa in un giardino  di sequoie, e tutto il lavoro che il giardiniere può garantire non sarà sufficiente perché la luce sarà sempre negata al fiore. Possiamo gioire che esistano persone con una idea differente del bene comune che scelgono di dedicare parte del proprio tempo ad un bisogno condiviso.
Sono disperato quando penso che tutto questo impegno non ha impatto sul mondo.
E mi spavento a pensare che probabilmente il mondo sia davvero senza speranza, e l’unico vero cammino sostenibile sarebbe quello di vivere con la consapevolezza di non averne alcuna: a volte penso che questa sia l’unica speranza da augurarsi.

***

Non  posso scusarmi per i miei pensieri scuri, posso solo prenderne atto e scegliere di comunicarveli.
Posso anche ringraziare chi ha voluto leggere questo diario: per me è stato molto piacevole e spero sia stato così anche per alcuni di voi.

Caracas, 19 agosto 2012             
                                                                                                                                                             Ugo

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