E
vissero tutti felici e contenti
Prima di lasciare Cusco avevo chiesto a Padre Manuel e a Percy dei
consigli su quali città potessi visitare nel mezzo del lungo cammino che mi
avrebbe portato a Lima. Entrambi mi han suggerito di fare una sosta ad Ayacucho
e Percy, più dettagliatamente, aveva elaborato una specie di programma di
viaggio, che comprendeva anche delle fermate ad Andahuaylas e Huancayo, altre
città della zona centrale. Ayacucho, mi spiegava, è stato il centro principale
della lotta al terrorismo, il luogo dove il Sendero Luminoso ha operato con
maggior frequenza. “Si tratta del Perù più povero, è importante che tu possa
averne conoscenza prima di ripartire. Qui a Cusco, questi momenti più bui della
storia del nostro paese sono nascosti ai turisti: nelle città che ti ho
suggerito potrai vedere con gli occhi e toccare con mano quello che è stato il
terrorismo in Perù.”
Per prepararmi alla visita mi ha
dato da leggere il rapporto della Comisiòn de la Verdad y Reconciliacion, istituita per far luce sugli
avvenimenti di quel periodo.
E’ stata una
lettura terribile e rivelatrice. Il documento, un passo alla volta,
ricostruisce eventi, modalità e responsabilità dei venti anni (dal 1980 al 2000)
del conflitto armato interno ed è stato un punto di riferimento importante per
capire la successiva comparsa della lunga dittatura ta di Fujimori e del
lento e non ancora completo ritorno alla democrazia.
Le divisioni
etniche, il clima di sospetto, la dissoluzione dei legami sociali sono stati gli
effetti più terribili di questa lotta, ma il bilancio dei morti e dei
desaparecidos è disarmante: sono i
numeri che rimangono più impressi nella percezione del disastro. La commissione
parla di settantamila morti, per la maggior parte concentrati nel triennio
1982-1984: la metà di questi vivevano
nel distretto di Ayacucho, la quasi totalità parlava la lingua quechua. La
maggior parte delle vittime erano contadini delle zone più rurali, con un
livello di educazione bassissimo, e rimangono, ancora oggi, i simboli più
evidenti di una distribuzione iniqua delle scelte del conflitto. La commissione
individua nel gruppo estremista del Partito Comunista Peruano, il Sendero Luminoso, il principale
responsabile della guerra. E’ una responsabilità indubbia, ma che anche non può
essere limitata al solo gruppo dei senderisti. Lo Stato e altri gruppi di lotta
armati hanno avuto le loro parti nei destini della guerra, e la Comisiòn individua anche le relative
attenuanti legate principalmente all’impreparazione dei vari gradi di
gerarchia, non abituati ad affrontare questo tipo di crisi.
La lotta del
Sendero è stata solo mascherata di ideologia, quando invece prevaleva una
specie di fanatismo religioso nei confronti del suo leader fondatore Abimael
Guzman Reinoso, poi arrestato nel 1992. I terribili dati diffusi dalla
Commissione rivelano proprio questa finzione: una lotta armata basata su forme
irrisolte di razzismo e sul ricorso a violenze terribili, torture, crudeltà
ingiustificate.
Ad Ayacucho esiste
un Museo della Memoria, un luogo anche un po’ sacrificato: lontano dal centro
storico e limitato a due sole stanze, ma racconta molto di quello che è
successo, in una collezione di capi di abbigliamento e di storie degli uomini
che li vestivano; ci sono molte foto e alcuni documenti. Ci sono descrizioni
dettagliate proprio delle torture: la gente veniva legata a un palo e colpita a
sangue, oppure veniva quasi annegata nell’acqua insaponata o mutilata in
qualche parte del corpo o ancora subiva scariche elettriche nelle zone
genitali. Se poi non serviva più veniva accantonata con altri corpi e lasciata
in gigantesche fosse comuni, oppure cremata in delle specie di forni per
uomini. E’ il motivo per cui non si hanno più speranze per i desaparecidos: il
museo può aiutare solamente un poco ad avvicinarsi alla vera comprensione di
quello che significa pensare ad un proprio caro come disperso: è uno stato di
speranza irrisolta, una perpetuazione terribile della vita dove già non esiste
più, ma non se ne hanno le prove.
La fondazione che
promuove il museo è stata istituita da Mama Angelica che ha visto il figlio Arquimedes
portato via a diciannove anni da un commando, senza ragione e senza riceverne più
notizie. Per anni la Fondazione ha lavorato per aiutare le famiglie dei
desaparecidos e soprattutto per
sensibilizzare tutta la popolazione peruviana al dramma: infatti, nel
resto del Paese non coinvolto, per moltissimo tempo non c’è stata alcuna consapevolezza del
genocidio; solo oggi si comincia a comprendere cosa è successo e pian piano si
sta cercando di uscirne vivi studiando altre misure di risarcimento, altri
compromessi con la storia.
Appena fuori dal
museo ci si sente saturi di angoscia e sepolti dal peso della tragedia. Appena
fuori dal museo c’è una chiesa, e sulla
parete bianca esterna c’è una grande scritta che recita solennemente: “Cristo!
Salva, Sana, Santifica y viene otra vez”, ma non è davvero il luogo giusto per
crederci una seconda volta.
***
Da Cusco, ad
Ayacucho e poi a Pisco è stato come un lungo sogno ininterrotto. Una
successione di notti in autobus e giornate accigliate, piene di sbadigli e
coscienza ovattata. Le sensazioni si mescolavano ad un cielo sempre più scolorito
e ad un paesaggio sempre più informe. Mi stavo muovendo verso la costa, verso
il freddo Pacifico, verso la zona di Nasca, di Ica e di Paracas: luoghi pieni
di sabbia e di testimoni. Le prime grandi comunità andine si sono mosse da qui,
e in queste zone hanno lasciato prove spettacolari del proprio passaggio nelle
famose linee di Nasca, quelle che attirano i creduloni di tutto il mondo e
naturalmente le astronavi aliene.
Ica è invece la
città dei vini e dei liquori, che sono prodotti nelle vicinanze. In Perù non si
beve molto vino e quelli che ho assaggiato sono in prevalenza dolci e un po’
stopposi, ma comunque gradevoli. Tra Ica
e la costa il paesaggio cambia deciso e cominciano a comparire palme secche e ampie
dune sabbiose, e poi c’è lo stesso cielo, che rende triste tutta la sabbia. Il
mare non cambia le cose e anzi rende labile la linea dell’orizzonte, che quasi
non si distingue più. Forse è un modo per preparare l’ingresso a Pisco, forse è
una forma di rispetto per una giornata molto importante.
Esattamente cinque
anni fa, proprio il 15 Agosto, un terremoto violentissimo rase al suolo la
comunità di Pisco. Chi me ne ha parlato lo ha fatto sempre con una specie di
timore ad avvicinarsi a certi ricordi. Dalle centinaia di morti, alle strade
aperte a metà agli edifici violati: la maggior parte dei dettagli rivelava
un’immagine di apocalisse. La cattedrale
che aveva due torri campanarie oggi non esiste più e al suo posto si trova un
modernissimo edificio appena inaugurato e ben lontano dallo stile coloniale
della precedente. Finora chi aveva avuto bisogno di farsi consolare dalla
propria fede aveva sfruttato un capannone aperto da un lato e coperto solo da
una tenda bianca, come un sipario, con all’interno qualche panca ed un altare dedicato
alla Virgen Maria.
Il municipio è
invece quello vecchio, rimasto in piedi per una specie di miracolo con una
torre dell’orologio ancora in bilico, ma anche testardamente al proprio posto.
Si è deciso di non buttarla giù, come per un atto simbolico, una specie di
invito a rialzarsi tutti, quelli coi cari sepolti, quelli sfollati, quelli
senza speranza. E lentamente la comunità si è mossa, ha messo a posto le crepe,
ha ricostruito le case con pochi piani e pochi dettagli. Adesso sembra una
città piena di prefabbricati (ma qui non ci sono prefabbricati) sistemati come
file di container. Alcuni sono stati verniciati (gialli o azzurri, i colori più
marini), gli altri mostrano ancora le proprie nudità in attesa di tempi
migliori. Gli abitanti sembrano voler dimenticare, ma la commemorazione di oggi
li rimette prepotentemente di fronte al disastro e i bambini delle scuole
sfilano con cartelloni e con foto che non lasciano scampo alla commozione e al
ricordo.
I turisti si
riaffacciano nella città che prima era un luogo molto visitato per via delle
vicine attrattive naturali della penisola di Paracas coi suoi cormorani, i
leoni marini e piccoli pinguini. La zona dedicata ai visitatori è già piena di
taverne, pub e ristoranti di mare che hanno prezzi un po’ più alti e inoltre ci
sono parecchie sale da gioco e casinò che testimoniano questa affannosa ricerca
di normalità, ma priva di identità: basata solo sulla logica della sopravvivenza
e del commercio. Ora che le crepe sono coperte e gli edifici ricostruiti è
difficile trovare segni esteriori di quello che è successo, ma ce ne sono di
nascosti e le persone che li svelano lo fanno con un sorriso gentile, quasi a
mettere le mani avanti, quasi a dire: “non so se lo sa, ma qui c’è stato un
terremoto violentissimo e ha distrutto tutto: come siamo oggi, non è stata
colpa nostra.”
***
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