sabato 18 agosto 2012

Décimo


E vissero tutti felici e contenti



Prima di lasciare Cusco avevo chiesto a Padre Manuel e a Percy dei consigli su quali città potessi visitare nel mezzo del lungo cammino che mi avrebbe portato a Lima. Entrambi mi han suggerito di fare una sosta ad Ayacucho e Percy, più dettagliatamente, aveva elaborato una specie di programma di viaggio, che comprendeva anche delle fermate ad Andahuaylas e Huancayo, altre città della zona centrale. Ayacucho, mi spiegava, è stato il centro principale della lotta al terrorismo, il luogo dove il Sendero Luminoso ha operato con maggior frequenza. “Si tratta del Perù più povero, è importante che tu possa averne conoscenza prima di ripartire. Qui a Cusco, questi momenti più bui della storia del nostro paese sono nascosti ai turisti: nelle città che ti ho suggerito potrai vedere con gli occhi e toccare con mano quello che è stato il terrorismo in Perù.”



 Per prepararmi alla visita mi ha dato da leggere il rapporto della Comisiòn de la Verdad y Reconciliacion, istituita per far luce sugli avvenimenti di quel periodo.
E’ stata una lettura terribile e rivelatrice. Il documento, un passo alla volta, ricostruisce eventi, modalità e responsabilità dei venti anni (dal 1980 al 2000) del conflitto armato interno ed è stato un punto di riferimento importante per capire la successiva comparsa della lunga dittatura ta di Fujimori e del lento e non ancora completo ritorno alla democrazia.



Le divisioni etniche, il clima di sospetto, la dissoluzione dei legami sociali sono stati gli effetti più terribili di questa lotta, ma il bilancio dei morti e dei desaparecidos è disarmante:  sono i numeri che rimangono più impressi nella percezione del disastro. La commissione parla di settantamila morti, per la maggior parte concentrati nel triennio 1982-1984: la metà di questi  vivevano nel distretto di Ayacucho, la quasi totalità parlava la lingua quechua. La maggior parte delle vittime erano contadini delle zone più rurali, con un livello di educazione bassissimo, e rimangono, ancora oggi, i simboli più evidenti di una distribuzione iniqua delle scelte del conflitto. La commissione individua nel gruppo estremista del Partito Comunista Peruano, il Sendero Luminoso, il principale responsabile della guerra. E’ una responsabilità indubbia, ma che anche non può essere limitata al solo gruppo dei senderisti. Lo Stato e altri gruppi di lotta armati hanno avuto le loro parti nei destini della guerra, e la Comisiòn individua anche le relative attenuanti legate principalmente all’impreparazione dei vari gradi di gerarchia, non abituati ad affrontare questo tipo di crisi.
La lotta del Sendero è stata solo mascherata di ideologia, quando invece prevaleva una specie di fanatismo religioso nei confronti del suo leader fondatore Abimael Guzman Reinoso, poi arrestato nel 1992. I terribili dati diffusi dalla Commissione rivelano proprio questa finzione: una lotta armata basata su forme irrisolte di razzismo e sul ricorso a violenze terribili, torture, crudeltà ingiustificate.
Ad Ayacucho esiste un Museo della Memoria, un luogo anche un po’ sacrificato: lontano dal centro storico e limitato a due sole stanze, ma racconta molto di quello che è successo, in una collezione di capi di abbigliamento e di storie degli uomini che li vestivano; ci sono molte foto e alcuni documenti. Ci sono descrizioni dettagliate proprio delle torture: la gente veniva legata a un palo e colpita a sangue, oppure veniva quasi annegata nell’acqua insaponata o mutilata in qualche parte del corpo o ancora subiva scariche elettriche nelle zone genitali. Se poi non serviva più veniva accantonata con altri corpi e lasciata in gigantesche fosse comuni, oppure cremata in delle specie di forni per uomini. E’ il motivo per cui non si hanno più speranze per i desaparecidos: il museo può aiutare solamente un poco ad avvicinarsi alla vera comprensione di quello che significa pensare ad un proprio caro come disperso: è uno stato di speranza irrisolta, una perpetuazione terribile della vita dove già non esiste più, ma non se ne hanno le prove.



La fondazione che promuove il museo è stata istituita da Mama Angelica che ha visto il figlio Arquimedes portato via a diciannove anni da un commando, senza ragione e senza riceverne più notizie. Per anni la Fondazione ha lavorato per aiutare le famiglie dei desaparecidos e soprattutto per  sensibilizzare tutta la popolazione peruviana al dramma: infatti, nel resto del Paese non coinvolto, per moltissimo tempo  non c’è stata alcuna consapevolezza del genocidio; solo oggi si comincia a comprendere cosa è successo e pian piano si sta cercando di uscirne vivi studiando altre misure di risarcimento, altri compromessi con la storia.



Appena fuori dal museo ci si sente saturi di angoscia e sepolti dal peso della tragedia. Appena fuori dal museo c’è una chiesa,  e sulla parete bianca esterna c’è una grande scritta che recita solennemente: “Cristo! Salva, Sana, Santifica y viene otra vez”, ma non è davvero il luogo giusto per crederci una seconda volta.

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Da Cusco, ad Ayacucho e poi a Pisco è stato come un lungo sogno ininterrotto. Una successione di notti in autobus e giornate accigliate, piene di sbadigli e coscienza ovattata. Le sensazioni si mescolavano ad un cielo sempre più scolorito e ad un paesaggio sempre più informe. Mi stavo muovendo verso la costa, verso il freddo Pacifico, verso la zona di Nasca, di Ica e di Paracas: luoghi pieni di sabbia e di testimoni. Le prime grandi comunità andine si sono mosse da qui, e in queste zone hanno lasciato prove spettacolari del proprio passaggio nelle famose linee di Nasca, quelle che attirano i creduloni di tutto il mondo e naturalmente le astronavi aliene.
Ica è invece la città dei vini e dei liquori, che sono prodotti nelle vicinanze. In Perù non si beve molto vino e quelli che ho assaggiato sono in prevalenza dolci e un po’ stopposi, ma  comunque gradevoli. Tra Ica e la costa il paesaggio cambia deciso e cominciano a comparire palme secche e ampie dune sabbiose, e poi c’è lo stesso cielo, che rende triste tutta la sabbia. Il mare non cambia le cose e anzi rende labile la linea dell’orizzonte, che quasi non si distingue più. Forse è un modo per preparare l’ingresso a Pisco, forse è una forma di rispetto per una giornata molto importante.
Esattamente cinque anni fa, proprio il 15 Agosto, un terremoto violentissimo rase al suolo la comunità di Pisco. Chi me ne ha parlato lo ha fatto sempre con una specie di timore ad avvicinarsi a certi ricordi. Dalle centinaia di morti, alle strade aperte a metà agli edifici violati: la maggior parte dei dettagli rivelava un’immagine di apocalisse.  La cattedrale che aveva due torri campanarie oggi non esiste più e al suo posto si trova un modernissimo edificio appena inaugurato e ben lontano dallo stile coloniale della precedente. Finora chi aveva avuto bisogno di farsi consolare dalla propria fede aveva sfruttato un capannone aperto da un lato e coperto solo da una tenda bianca, come un sipario, con all’interno qualche panca ed un altare dedicato alla Virgen Maria.



Il municipio è invece quello vecchio, rimasto in piedi per una specie di miracolo con una torre dell’orologio ancora in bilico, ma anche testardamente al proprio posto. Si è deciso di non buttarla giù, come per un atto simbolico, una specie di invito a rialzarsi tutti, quelli coi cari sepolti, quelli sfollati, quelli senza speranza. E lentamente la comunità si è mossa, ha messo a posto le crepe, ha ricostruito le case con pochi piani e pochi dettagli. Adesso sembra una città piena di prefabbricati (ma qui non ci sono prefabbricati) sistemati come file di container. Alcuni sono stati verniciati (gialli o azzurri, i colori più marini), gli altri mostrano ancora le proprie nudità in attesa di tempi migliori. Gli abitanti sembrano voler dimenticare, ma la commemorazione di oggi li rimette prepotentemente di fronte al disastro e i bambini delle scuole sfilano con cartelloni e con foto che non lasciano scampo alla commozione e al ricordo.




I turisti si riaffacciano nella città che prima era un luogo molto visitato per via delle vicine attrattive naturali della penisola di Paracas coi suoi cormorani, i leoni marini e piccoli pinguini. La zona dedicata ai visitatori è già piena di taverne, pub e ristoranti di mare che hanno prezzi un po’ più alti e inoltre ci sono parecchie sale da gioco e casinò che testimoniano questa affannosa ricerca di normalità, ma priva di identità: basata solo sulla logica della sopravvivenza e del commercio. Ora che le crepe sono coperte e gli edifici ricostruiti è difficile trovare segni esteriori di quello che è successo, ma ce ne sono di nascosti e le persone che li svelano lo fanno con un sorriso gentile, quasi a mettere le mani avanti, quasi a dire: “non so se lo sa, ma qui c’è stato un terremoto violentissimo e ha distrutto tutto: come siamo oggi, non è stata colpa nostra.”



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