Arequipa
C’è una città molto grande ad
Ovest di Puño che si chiama Arequipa.
Sono partito da Caracoto lunedì,
nel pomeriggio. Il posto non era molto lontano (almeno se si fa riferimento alle
distanze tipiche di un paese vasto come il Perù) e l’autobus era un buon
trasporto. Si muoveva su una strada molto bella anche se tipicamente desertica,
ma piena di scorci e qualche accenno ad una natura differente dai semplici
sassi. Dovevo arrivare ad Arequipa dopo le sette, perché nei miei programmi era
di dormire da un amico di Padre Manuel, un altro curato, ma meno missionario
rispetto alle mie ultime illuminate conoscenze.
Padre René, mi aveva spiegato
Manuel, è mezzo francese: ha vissuto molto in Francia anche se nato in Perù, ed
ora vive ad Arequipa che è la seconda città del Perù e come tale molto caotica.
Dovevo raggiungerlo nel suo appartamento in piano centro, dovevo mettermi d’accordo
per telefono con la sua perpetua, la señora Magda, e avvisarla del mio arrivo,
poi dovevo prendere un taxi.
La telefonata e il taxi sono stati
momenti importanti del mio viaggio, un po’ come varcare una porta socchiusa con
l’incoscienza di ciò che vi avrei trovato.
Non è difficile telefonare in
Perù: ogni angolo di qualsiasi minuscolo pueblo
di qualsiasi sperduta regione possiede una bottega che vende telefonate. Si
chiamano locutorios e sono segnalati
da un grosso cartellone verticale, colorato nello sfondo con delle lettere blu
molto grandi in primo piano. Anche la stazione dei bus ne aveva parecchi, e
sono entrato nel primo che aveva il prezzo esposto. “Señora Magda, soy l’amigo de
Manuel. He illegado aqui, in Arequipa y ahora tomo el primero taxi para la casa”,
le avevo detto un po’ meccanicamente, recitando male il discorso che mi ero appena
preparato. Poi uscì per cercare il mezzo.
La diffidenza è una brutta
compagna di viaggio e appena usciti fuori dalla stazione, rimasti soli l’uno
accanto all’altra, mi raccontava cose orribili in un soliloquio di vecchie raccomandazioni
che stavano registrate da qualche parte nella mia testa. Mi parlava dei
tassisti che bloccavano la macchina, ti rapinavano e ti lasciavano al bordo della
strada, ma non era certo un problema primario. Però mi faceva spavento, e mi
faceva voltare a destra e a sinistra, di scatto e senza tranquillità, mi diceva
che potevano prendermi da dietro con un coltello e per darsi tono mi raccontava
di quell’altro volontario che due anni fa, “…e lui parlava bene lo spagnolo,
non come te che sei peggio di un lama, era andato in giro solo a Juliaca,
vicino al mercato e lo avevano capito che era uno straniero, lo avevano
minacciato con un coltello e lasciato dei tagli sulle mani.”. Mi aveva anche
detto una cosa strana e ne avevo riflettuto, cioè che io rappresentavo quello
che gli altri non avevano, e in alcuni casi il motivo stesso per cui non potevano
averlo.
Tutto questo mi metteva a
disagio, così decisi di salutare la mia accompagnatrice e di non dividere con
lei la spesa del viaggio. Fermai vari taxi, ma solo il terzo accettò di
accompagnarmi, mentre gli altri due mi avevano guardato con la pietà per l’uomo
carico di sventura e avevano scosso la testa, adducendo motivazioni risibili
come il traffico e l’ora difficile. Il terzo mi aveva guardato fisso e aveva anche
parlato del traffico, ma nei suo i occhi si vedeva di riflesso il mio aspetto da
gallinaceo europeo, così mi disse, “Uhm… Calle Pizzarro con Victor Lira… Hay mucha
conjestion… Està bien ocho soles?”.
Così, ho imparato, si spenna un
pollo.
***
Manuel mi aveva parlato poco di Padre
René, in compenso mi aveva descritto un altro personaggio molto interessante: “Sai,
qui a Juliaca abbiamo un altro tipo particolare. E’ anche lui francese, però
vive in Perù da tanti anni, credo da venti o trenta. Sai, è la persona più
radicale che conosca. Non è un prete, ma frequenta l’ambiente della chiesa da
molto tempo e sta sempre con i poveri e gli ubriachi, parla con loro, mangia,
beve e pure dorme con loro, sulle strade all’aperto. Sta lì accanto e fa
attenzione che non si feriscano, che non bevano troppo. E’ davvero un brav’uomo,
però è difficile avere dei rapporti normali perché nel suo estremismo spesso si
comporta in maniera strana. Sostiene che bisogna vivere come i poveri e non
avere abitudini differenti, perché è irrispettoso. Forse non è neanche una
mancanza di rispetto per lui, quanto una forma di illogicità. E’ sempre
piacevole conversarci, però è anche capitato, a volte, che venisse a trovarci
in parrocchia con il suo gruppo di ubriachi, che si mettono a gridare, a
cantare e a rompere e rubare le cose. Allora li abbiamo scacciati e lui non mi
ha parlato per un anno. Aveva anche una moglie e una figlia che l’hanno
lasciato per lo stesso motivo, stanche di questa forma di follia. Un giorno,
poi, è scomparso per sei mesi, che noi pensavamo fosse morto di freddo in
qualche angolo, dietro qualche albero. Quando è tornato, non si è fatto
problemi di sorta ed è ripassato dalla parrocchia a mangiare e a rimproverarmi
che non si poteva mangiare così tanto, che era una cosa immorale, che i poveri
non hanno da mangiare.
In fondo gli vogliamo tutti bene,
perché è un uomo buono. Una volta ci siamo spaventati a morte, anche più di
quando è scomparso: lo abbiamo visto dalla strada, il corpo disteso al bordo
della ferrovia, di fianco ad un altro corpo morto. Sembrava immobile e
pensavamo che fosse davvero morto, forse rapinato e colpito. Ci siamo
avvicinati e con sorpresa abbiamo visto che non solo era vivo e sveglio, ma stava
anche parlando con l’altro uomo, che era invece ubriaco marcio. ‘Sai, Manuel’,
mi disse, ‘E’ troppo importante avere rispetto per gli altri e bisogna avere
cura di parlare di pari grado, guardandosi negli occhi.’ Capisci? E’ per questo
che stava disteso, per poter avere l’occasione di parlare con l’altro, di
spiegargli che bere molto fa male, ma sempre guardandolo con gli occhi alla
stessa altezza.”
Padre René era francese, ma in un
modo diverso. Aveva la pelle scura, ma quasi come fosse molto abbronzata,
perché il sole di Arequipa non è così forte come a Puño e non macchia la pelle. Aveva
però un aspetto un po’ particolare che lo faceva assomigliare ad un topo, per
via di un naso all’insù e delle orecchie sproporzionate rispetto al corpo molto
minuto. A questo aggiungeva dei capelli radi tenuti all’indietro con una specie
di brillantina e degli occhialetti molto piccoli. Aveva anche dei movimenti
nervosi e sebbene fosse molto gentile non riusciva ad essere accogliente, in un
certo senso.
Parlava anche un po’ di italiano,
ma non bene e da parte mia rispondevo sempre in spagnolo, un po’ per esercizio,
un po’ per abitudine o educazione. Però è difficile pensare che fossero forme
di reale comunicazione, anche perché Padre René ascoltava poco di quello che
gli si diceva, molto preso da pensieri trasversali che uscivano irruenti e
acuti per mezzo della sua voce, e cambiavano sempre argomento: erano nuove
domande private del minimo interesse o delle storielle che facevano capo solo
al filo dei suoi ragionamenti.
Il primo giorno, mentre stavamo
pranzando, mi mostrava il suo cane vestito da supereroe, giallo e rosso. “E’ un
gringo peruviano”, mi spiegava accarezzandolo e subito scacciandolo via a
calci, “E’ un gringo negro”, continuava ridendo, ma io non capivo bene: “Ma perché
è vestito?”, chiesi.
“Si brucia col sole”, mi disse
scoprendo la parte di pelle coperta, ed effettivamente sembrava tenere un’abbronzatura
da muratore, ma senza aver dovuto faticare molto.
“Sai, c’è una storiella che
raccontano qui…”, aveva proseguito, “Si dice che all’inizio del tempo in Perù
esistevano solo uomini bianchi. Un giorno però successe che uno di questi,
ubriaco, si rivolse al diavolo cominciando a prenderlo a spintoni e
riempiendolo di insulti. Il diavolo, che era insolitamente paziente, non poté
resistere a lungo e all’improvviso si volse verso l’altro con le braccia
alzate, le mosse di scatto con un gesto violento e puff! Il bianco era stato
bruciato, ed era ora tutto nero. Questo per spiegare l’origine de los negros. Ma sai, questa è una
storiella racista, che qui raccontano
spesso. E’ molto vecchia”.
***
Non è però l’unica storiella che
si racconta in queste zone leggendarie, dove il mito e la storia si fondono in
una lega inestricabile di racconti tramandati ed evidenze archeologiche.
Arequipa è il contenitore ideale
di queste leggende, situata in una valle circondata da vulcani millenari. Sono
quattro o cinque vulcani sopra i seimila metri e salutano ogni mattino ben
prima del resto della città: hanno in cima la neve perenne e sono così grandi
da apparire sempre vicini e lontani. Il più vicino è El Misti, ha la forma di
un cono perfetto e sovrasta il piano della città, ma non ne affetta il clima
che rimane mite e tiepido per tutto l’anno. Le case sono piccole e gli abitanti
sono moltissimi, tre milioni, dieci milioni o meno di un milione a seconda di quello
che ti vuole raccontare chi te ne parla. E’ una distesa sterminata di
abitazioni, con il vulcano che fa da guardiano, con l’aspetto sornione e la
punta bianca. Tutta Arequipa è bianca, la chiamano La ciudad blanca perché le case sono fatte di Sillar, una pietra vulcanica di colore chiarissimo. Il centro è il
nucleo abbagliante di questa distesa luminosa e si offre a molti turisti che ne
visitano la cattedrale o le chiese più piccole. Vicino c’è un antico monastero
dell’epoca della Conquista spagnola, nel 1580, ed è dedicato a Santa Caterina (Santa Catalina). Per secoli è stato il
luogo di raccoglimento (ma non propriamente di preghiera) delle non primogenite
dalle famiglie più ricche di Spagna. Per secoli le novizie hanno fatto voto di
non povertà e perpetuavano la stessa viziosissima vita che portavano avanti
prima dei voti. Tenevano schiave e amanti, e si divertivano in feste e orge
spensierate. Questo idillio ebbe termine per opera congiunta di Papa Pio IX e una
terribile suora domenicana, che costrinse le altre sorelle a muoversi più
decisamente verso la dottrina e liberò la quantità di schiavi al loro servizio.
Il monastero è una piccola città
nella città, un gioiello molto ben conservato che ha subito laboriosi restauri
a causa dei frequenti terremoti che hanno imperversato nella zona negli ultimi
secoli: si tratta naturalmente di sismi legati all’attività vulcanica, ma tutto
il Perù è vittima di eventi di questo genere e ha ormai imparato, suo malgrado,
a conviverci. Ed è anche per questo che le case sono normalmente molto basse e
sembrano costruite con poco impegno.
Altri vulcani si trovano un po’
più lontano e si abbracciano in una valle molto famosa, chiamata Valle del
Colca. Si tratta di un a lunghissima gola stretta tra le morse dei vulcani
Coropuna e Ampato, entrambi sopra i seimila metri. Il punto più basso registra un
dislivello di più di tremila metri e rende questa valle il canyon più profondo
del mondo. La valle intera ospita numerosi paesini di origine Incas, poi
deviati in seguito alla conquista spagnola. Dove ora ci sono le chiese, si
racconta ci fossero templi dorati e culture ancora fiorenti. Ogni nome nasconde
questa origine e fa riferimento ad antiche parole ormai perdute che richiamano
a qualche particolare caratteristica del luogo, quello che apre la porta al
vento, quello che vende il mais, quello
degli animali senza corna.
Gli animali con le corna non
abitano più queste zone. Si tramanda che una strega attraversò la valle
fermandosi nel pueblo di Coporaque e
lì incontrò due giovani fratelli. Uno di questi era buono e gentile, mentre l’altro era avido di ricchezza e desideroso di
potere. La strega ascoltò da questi che la terra era arida e il bestiame era
magro, e si viveva male. Allora la strega donò loro dei fiori e disse di
piantarli al bordo delle loro proprietà, disse che era un dono di fertilità e
che le cose sarebbero andate meglio. La strega se ne andò lasciando ai due l’arbitrio
della propria sorte. Il giovane buono ascoltò i consigli della vecchia e le sue
colture e il suo bestiame presero a diventare floridi nello spazio di un
mattino. Il secondo fratello fu invece vittima della propria vanità non
credendo alla strega. Prese i suoi fiori e li pose ai lati del sombrero per
farsi ammirare dalle donne l’indomani ed essere salutato con più rispetto. Si
addormentò con questa speranza, ma si risveglio con delle lunghissime corna,
proprio dove stavano i fiori. E fu talmente preso dalla vergogna che scappò dal
paese di nascosto e senza tornarci mai più, e si rifugiò su quelle montagne
dove ancora oggi vivono i lama cornuti.
***
I vulcani erano dei luoghi
mistici per gli Incas. Calamità frequenti, siccità, carestie o terremoti li spingevano
a riti propiziatori basati su sacrifici umani: nell’occasione non desiderata la
cima del vulcano era il luogo più importante perché più vicino agli dei. Lunghe
processioni accompagnavano un ristretto gruppo selezionato di sacerdoti e di vittime
designate verso la sommità del monte. Prima dell’ultima scalata la processione
si fermava in attesa e il piccolo gruppetto continuava l’ascesa. Gli agnelli di
dio erano scelti tra i migliori esemplari che le città dell’impero mettevano a
disposizione: i più belli, le più belle, i più intelligenti. Fin dall’inizio
lasciavano le proprie case per venire educati in vista della possibile
cerimonia.
Qui i bimbi erano storditi con della
birra drogata e uccisi con un colpo di bastone. Poi venivano sistemati in
posizione fetale, perché così l’anima poteva avere migliore occasione di
rinascere e infine venivano calati in un piccolo pozzo, circondati da statuette
e altri oggetti votivi. Circa venti anni fa una di queste cave è stata scoperta
sotto i ghiacci più antichi e ha rivelato un corpo perfettamente conservato,
nei suoi organi, nella pelle esterna, nel terribile sguardo vacuo e nel pallore
di mummia che il gelo aveva permesso. La chiamano Juanita, dal nome del suo
scopritore, e ora riposa in pace in un frigorifero trasparente, nella stanza
più buia di un museo tetro di Arequipa. Riposa in pace, mentre tutti la
guardano.
***
Festa patria*
Piove sulla nazione in festa.
Lava via i peccati di tutti, e
tutti guardano al cielo implorando pietà. Perché il Perù va amato, e tutti si
amano e sono contenti di sfilare, di marciare sotto la pioggia. Il suo
presidente è basso, cammina goffo verso la grande cattedrale di Lima e lo
attendono vescovi, cardinali e ministri in un inestricabile conflitto di poteri
secolari. Piove sulla cattedrale e lava meglio, perché è più sporco.
Piove sui sagrati delle altre
chiese che celebrano ovunque per la festa di tutti. Le strade sembrano più
pulite e la polvere rimane in terra. Le coccarde, le bandiere e le spille sono
bianche e rosse e umide in un cielo plumbeo che minaccia giudizio e terribili
profezie. Ma è una giornata di festa e la pioggia non rovina, non guasta e
tutti saranno felici lo stesso e non hanno paura che la birra si annacqui. Oggi
il presidente parlerà, e dirà di quello che ha fatto in un anno e tacerà di
quello che avrebbe dovuto fare. Ma nulla potrà distrarre e nessuno si occuperà
di null’altro che dell’amato Perù, perché esso va amato come il migliore dei
figli, come il più bello. E la festa non può essere sacrificata in vece della
normale vita quotidiana, e se i servizi devono funzionare che almeno li paghino
di più, e così tutto costa il doppio perché il lavoro logora le feste e le
uccide di noia.
La pioggia e le nuvole scure,
invece, non possono rovinare nulla perché Dio le vuole: Dio festeggia col Perù
e manda la pioggia come schiuma di spumante che cade giù dal cielo, e anche lui
è felice e canta l’inno con gli altri.
Piove sulle marce militari, di
soldati e scolari, e piove sulla sfilata dei professori che hanno sospeso lo
sciopero per l’amata patria. Sfilano a braccetto e mantengono il viso serio,
perché quando la festa finirà riprenderanno a colpirsi coi sassi e a combattere
la personale guerra fratricida, sul suolo dell’amato Perù.
Piove sull’acqua avvelenata e
sulle miniere di oro e tutto ossida e niente purifica. Perché il Perù va amato
di più quando è preoccupato, quando la terra stessa ne soffre. A Calamanca piove
senza soluzione, ma il paese è in festa e non importa e la giornata è speciale.
Domani ci penseranno, domani ci penseremo, ma non oggi.
Oggi piove su tutto e su tutti
nella festa di ciascuno, pulisce via i peccati almeno fino a domani, quando
tutti si accorgeranno di avere i vestiti ancora sporchi e che le macchie non si
son lavate via.
*Il 28 Luglio è la festa nazionale
del Perù che in quel giorno del 1821 è diventato uno stato indipendente.
***